Cosa vorrai diventare da grande?

Cosa vorrai diventare da grande?

Lo scorso 2 ottobre, alla Casa Circondariale Lorusso e Cotugno, ha avuto luogo l’incontro conclusivo dei due progetti Sicomoro svoltisi rispettivamente nei mesi di febbraio-marzo e maggio-giugno. Per la prima volta dall’inizio di questo lungo percorso, si sono ritrovati nella stessa stanza vittime, volontari, detenuti e familiari. La prima a prendere la parola è stata l’educatrice Eva Mele, che ha accolto e rasserenato le famiglie sulle condizioni dei propri cari e sull’aiuto che viene loro assicurato all’interno della struttura. Da quel momento in avanti, sono state le testimonianze dei ragazzi che hanno partecipato al progetto a riempire i cuori di gioia e gli occhi di lacrime. Ogni storia rivissuta con così tanto dolore è servita per far aprire gli occhi e rimpossessarsi della propria vita. Uno dei ragazzi, durante il proprio intervento, ha rivolto a tutti i presenti una domanda estremamente semplice, che quasi fa sorridere se rivolta a uomini ormai adulti: “Cosa vorrai diventare da grande?”. Di solito un quesito tale viene indirizzato ai più piccoli, ma non per questo motivo una persona che ormai grande lo è da tempo, non possa decidere di cercare in se stessa la risposta e diventare una persona diversa.

Durante questo viaggio abbiamo assistito al desiderio da parte di molti di rimettersi in gioco e ricominciare a studiare; tra questi, un ragazzo che ha ammesso più volte che fuori da quella struttura non avrebbe mai toccato libro. Abbiamo preso atto di come le persone siano cambiate, maturate e si siano intenerite ritrovandosi a piangere ascoltando le testimonianze degli altri. Ammettere ad alta voce quello che si è vissuto, a prescindere dalla posizione in cui ci si trovi, non è mai stato facile e alcuni hanno trovato il coraggio di farlo solo nell’ultimo incontro. Quanto manifestato da uno dei detenuti è vero: il dolore non è indirizzato solo alla persona che ha subito il torto, ma si propaga a macchia d’olio verso tutti coloro che, inevitabilmente, vengono coinvolti nel reato commesso come gli amici e i familiari sia delle vittime che di coloro che si trovano reclusi. Per questo motivo, quando a parlare sono stati i figli di alcuni detenuti, l’atmosfera si è fatta più pesante e il pianto liberatorio di molti ha alleggerito la situazione.

Anche questa volta, gli effetti del Sicomoro sono stati molto intensi. Nonostante a incontrarsi non siano le vittime con i propri carnefici, si riesce comunque a empatizzare il dolore degli altri e a portarlo sulle proprie spalle; allo stesso modo, pur non sentendo parlare i propri figli, molti hanno avvertito il loro dolore e sono riusciti a comprendere cosa hanno provato le persone che più amano. Il figlio di un solo uomo è diventato il figlio di tutti quando ha rivolto delle parole ricolme di amore nei confronti del padre, il suo punto di riferimento, che da un giorno all’altro è dovuto partire per questo “viaggio” lasciandolo da solo. Non c’è stato rancore nelle parole di questo ragazzo, né vergogna, ma solo affetto e speranza.

Durante il Sicomoro, diventare un gruppo coeso vuol dire esattamente questo: condividere la sofferenza altrui, ma anche i propri successi e il proprio amore, proprio come è accaduto durante l’incontro conclusivo quando, in modo orgoglioso, uno dei ragazzi del secondo gruppo ha voluto introdurre a tutti i presenti l’amore ritrovato, per lui estremamente importante e significativo.

Per ultimi sono intervenuti i familiari dei detenuti ed è qui che si è verificato un evento così straordinario da riuscire, da solo, a confermare l’importanza del Progetto Sicomoro. Gli effetti di questo “percorso” non si limitano a portare pace e serenità solo nel cuore di chi lo ha affrontato ma anche a tutte le persone che gli sono vicine. Durante una delle ultime testimonianze, la compagna di uno dei ragazzi detenuti è scoppiata in lacrime e, probabilmente spinta dal forte senso di accoglienza e condivisione, ha confessato di essere stata lei stessa una vittima e di non aver mai trovato il coraggio di confessarlo a nessuno se non al proprio compagno, dopo 35 anni dall’accaduto. Molte sono le persone che faticano ad ammettere o denunciare ciò che gli è capitato; continuano così a portarsi un enorme peso sul cuore per molti anni, se non per tutta la vita.

Il rapporto che si riesce a creare tra gli aderenti a questo progetto è estremamente forte e lo si percepisce anche da esterni: gli incontri tra detenuti e vittime diviene quel luogo sicuro di cui si ha bisogno per sentirsi liberi di aprirsi senza essere giudicati, senza avere paura di farlo. Il coraggio che ha avuto questa donna è un dono per tutti e soprattutto per lei che, per non rovinare la vita e la serenità delle persone che più amava, ha deciso di mentire a tutti e conservare quel dolore dentro per gran parte della sua vita. Adesso è pronta per accogliere anche lei il cambiamento; con molta probabilità, abbraccerà a breve questo percorso con l’associazione Prison Fellowship Italia portando la sua parola e la sua testimonianza ad altre persone che condividono il suo stesso dolore. L’amore e la forza che provengono da questo cammino sono come una cascata che inizialmente travolge tutto e tutti e poi trova la propria strada, raggiungendo tutti coloro che hanno bisogno di essere salvati e aiutati.

L’incontro si è concluso con una preghiera, tenendosi tutti per mano in un grande cerchio all’interno del teatro, e con tanti abbracci. Nonostante gli incontri siano terminati qui, per i partecipanti al progetto è appena cominciato il cammino verso una vita nuova. Dopo essere stati accolti e accompagnati per diversi mesi, ora è arrivato il loro momento per far tesoro di tutto quello che hanno vissuto e per cominciare a camminare con le proprie gambe.

 

Ilaria Lavia

A Rebibbia, scendiamo in campo per la pace! (2 edizione)

A Rebibbia, scendiamo in campo per la pace! (2 edizione)

Si è svolto per il secondo anno consecutivo, presso la Sez. femminile di Rebibbia, il 29 settembre scorso, l’evento “A Rebibbia, Scendiamo in campo per la pace”. Come per le più “sofferte” partite di calcio, in tanti, per due ore, hanno esultato e tifato le quattro squadre dell’incontro quadrangolare ospitato all’interno delle mura del carcere romano.

A sfidarsi, in un’amichevole di calcetto, le detenute dell’Atletico Diritti, gli operatori penitenziari e i numerosi ospiti sopraggiunti per l’occasione. Sulle loro magliette i colori delle diverse associazioni e società sportive che, insieme a Prison Fellowship Italia Onlus, promotrice dell’evento, si sono messe in gioco per lanciare, ancora una volta, un appello alla pace e all’unità tra i popoli. SS Lazio, So.Spe., Miti dello Sport, AS Roma Calcio a 5 femminile, Word Save World, Nazionale delle Suore e Pallanuoto SIS Roma: questi, per un giorno, i nomi della solidarietà a Rebibbia. Per ognuna di queste realtà, tanti ex campioni e atleti olimpici dello sport: Tommaso Rocchi, ex calciatore della Lazio e della Nazionale; Amaurys Perez, ex pallanuotista, campione del mondo a Shangai 2011 e attualmente allenatore SIS Roma femminile, insieme a Domitilla Picozzi, capitano della stessa squadra; le calciatrici della AS Roma calcio a 5: Sara Nardi, Giulia Di Giacomo, Fabiana Fabrizi, Giorgia Tarenzi, Martina Lecca, Alessia D’Aguanno e il capitano Ketti Bellon; Lucia Torresani, campionessa di fioretto; Bruno Miguel Mascarenhas Antunes, ex campione mondiale e medaglia olimpica canottaggio Atene 2004 e vice Presidente dell’Associazione Miti dello Sport; Valerio Vermiglio, campione mondiale di pallavolo e presidente Miti dello Sport; Emanuele Blandamura, campione europeo di pugilato; Roberto Meloni, judoka italiano medagliato bronzo ai Mondiali; Antonino Di Natale, Fiamme gialle judo. A giocare in campo, inoltre, la squadra femminile di calcio dell’Associazione So.Spe. capitanata da suor Paola D’Auria (nota religiosa tifosa della Lazio) e suor Regina Muscat, della “Nazionale delle Suore” (da un’idea straordinaria di Moreno Buccianti, ex calciatore e già fondatore, nel 2005, della Seleçao dei sacerdoti) che, come lo scorso anno, ha arbitrato il torneo.

A dare il calcio d’inizio la direttrice di Rebibbia femminile, la dott.ssa Nadia Fontana che, dopo aver ringraziato tutti gli ospiti presenti, ha sottolineato come lo sport sia importantissimo nel trasmettere valori come l’amicizia e la lealtà, ma soprattutto il rispetto della persona e delle regole, principi fondamentali per un percorso riabilitativo e per una società sana.

Marcella Reni, presidente dell’Associazione Prison Fellowship Italia (PFIt), nel saluto che ha preceduto il calcio d’inizio, ha voluto svelare simpaticamente la squadra per cui avrebbe tifato: quella dell’”eccellenza”, quella che da qualche anno ci accoglie e cioè il team di calcio delle ragazze di Rebibbia. Per loro, come per tutte le altre detenute che non sono potute intervenire alla giornata di festa, l’augurio di “non ritrovarci” insieme il prossimo anno; la vita – ha proseguito la dott.ssa Reni -, come anche la reclusione, sono partite importanti da giocare. «Oggi, su questo campo, “giocatevela bene”!». Ha poi ricordato che «le 136 Associazioni Prison Fellowship presenti in tutto il mondo sono state informate di questo “torneo di calcetto” e, con grande gioia e approvazione per questo evento, si augurano che vinca il migliore!».

Suor Paola D’Auria, responsabile dell’Associazione So.Spe, ha detto: «Conosco bene la realtà carceraria perché frequento il carcere romano maschile di Regina Coeli da ben 42 anni!». Ma vedere giocare queste ragazze in campo, per la pace, ha detto, «è davvero emozionante perché, rispetto all’ambiente maschile, esprimono tutta la loro voglia di fare squadra, di dare il meglio divertendosi e comunicando la bellezza di stare insieme per un obiettivo comune».

Valerio Vermiglio, presidente dell’Associazione “Miti dello Sport” ed ex campione mondiale della Nazionale di pallavolo, oltre ad aver giocato in campo con gli altri atleti dell’Associazione, ha detto di essere sempre disponibile a prendere parte a iniziative a sostegno degli ultimi e che legano lo sport a ideali indispensabili come la pace o l’inclusione. Lo stesso Vermiglio ha inoltre espresso la disponibilità a offrire corsi di varie discipline sportive all’interno del carcere.

L’ex campione mondiale di pallanuoto Amaurys Perez – della società SIS Roma -, in una delle brevi pause per consentire l’alternanza delle squadre del quadrangolare, ha invitato tutte le ragazze in campo per ballare qualche passo di salsa e strappare loro un sorriso. Ha poi dichiarato di essere da sempre sensibile a tematiche sociali e di essere stato lui stesso, in passato, un educatore nel carcere minorile di Tenerife (Spagna).

Ognuno, in modo diverso, ha testimoniato come, oltre i diversi colori dei propri club, oltre i diversi sport praticati, insieme si può fare squadra e raccontare al mondo una bellissima storia di collaborazione e amicizia all’insegna della pace.

Sport, musica e solidarietà sono stati senza dubbio i veri vincitori di questa insolita giornata di festa. Ciò nonostante, si è voluto premiare – con dei trofei donati dalla SS Lazio – l’impegno e la sportività di chi è sceso in campo: prima classificata la squadra della Polizia Penitenziaria; al secondo posto la squadra “mista” degli operatori (tre ragazze della So.Spe. di suor Paola, e 2 educatori e un infermiere di Rebibbia). Terzo posto per le ragazze dell’Atletico Diritti di Rebibbia, capitanate dall’educatrice Alessia Giuliani, e quarto posto per gli atleti dell’Associazione “Miti dello Sport”. Una coppa, infine, per “il miglior scarpino” in campo che è andato alla giovane e bravissima calciatrice di Rebibbia, Valeria.

Un ringraziamento speciale va a Moreno Buccianti e a suor Regina Muscat, della “Nazionale delle Suore” che da professionista ha arbitrato, per il secondo anno, l’intero torneo; all’ex calciatore della Lazio Tommaso Rocchi che ha presenziato il torneo e premiato la migliore calciatrice; a Fabrizio Del Prete, presidente dell’Associazione Word Save World; e al cantante Massimo Mattia, presentatore dell’evento. Grazie agli operatori dell’Area educativa e della Polizia Penitenziaria senza i quali non sarebbe possibile realizzare tali eventi. Rinnoviamo infine la nostra gratitudine alla dott.ssa Cristina Mezzaroma, presidente operativo della SS Lazio, e allo sponsor Bar La Licata e a un anonimo per aver offerto il buffet a conclusione del torneo, rendendo possibile un momento di convivialità e sorrisi con tutti i presenti.

A Rebibbia scendiamo in campo per la pace

A Rebibbia scendiamo in campo per la pace

A pochi giorni dalla Giornata Internazionale della Pace (celebrata in tutto il mondo il 21 settembre), artisti del mondo dello spettacolo e sportivi scenderanno in campo per disputare una partita di calcio che da Rebibbia vuole coinvolgere simbolicamente tutte le Nazioni: quella per la pace nel mondo. “A Rebibbia, Scendiamo in campo per la pace” è infatti il titolo dell’iniziativa (nella sua seconda edizione) che vedrà giocare, nel campo sportivo della Sez. femminile della Casa Circondariale romana, venerdì 29 settembre 2023, le detenute della squadra di calcio di Rebibbia, gli operatori penitenziari e diversi ex campioni olimpici. Promotrice dell’evento, l’Associazione Prison Fellowship Italia onlus (da anni impegnata con diverse iniziative vicine ai detenuti e alle vittime di reato), di cui è presidente la dott.ssa Marcella Reni, presente alla manifestazione. Molte le associazioni e le società sportive che hanno accolto l’invito a partecipare.

Tra queste: SS Lazio, So.Spe. (Solidarietà e Speranza), Miti dello Sport, AS Roma Calcio a 5, Word Save World, Pallanuoto SIS Roma, che milita nel Campionato di Serie A1 di pallanuoto femminile. Numerosi gli sportivi delle diverse realtà che interverranno e scenderanno in campo: Tommaso Rocchi (ex calciatore della Nazionale e della Lazio); Amaurys Perez (ex pallanuotista, plurimedagliato, campione del mondo con il Settebello a Shangai 2011, allenatore SIS Roma) e Domitilla Picozzi, capitano della squadra femminile di pallanuoto della SIS; le calciatrici della AS Roma calcio a 5, Sara Nardi, Giulia Di Giacomo, Fabiana Fabrizi, Giorgia Tarenzi, Martina Lecca, Alessia D’Aguanno e il capitano Ketti Bellon; Lucia Torresani, campionessa di fioretto; Bruno Miguel Mascarenhas Antunes, ex campione mondiale e medaglia olimpica canottaggio Atene 2004 e vice Presidente Ass. Miti dello Sport; Valerio Vermiglio, campione europeo e mondiale di pallavolo e presidente Miti dello Sport; Emanuele Blandamura, pugile italiano campione europeo; Roberto Meloni, judoka italiano medagliato bronzo ai Mondiali. Presenti, inoltre, la squadra femminile di calcio dell’Associazione So.Spe. capitanata dalla simpatica suor Paola D’Auria (la nota religiosa tifosa della squadra bianco celeste) e suor Regina Muscat, della “Nazionale delle Suore”, che, come lo scorso anno, arbitrerà il torneo. All’iniziativa interverranno, inoltre, Antonino Di Natale, ex fiamme gialle e responsabile Eventi Miti dello Sport, e Oreste Fuga, dirigente della stessa Associazione. Tutti insieme, nel segno della pace, si “sfideranno” a “colpi di scarpini” per realizzare una giornata di festa all’insegna dello sport e della solidarietà, e manifestare il nostro impegno comune per la pace. La scelta del carcere come campo da gioco, uno dei luoghi che per eccellenza incarna e ci racconta storie di violenza e dolore, non è casuale. Proprio da qui, da questo spazio pregno di sofferenza ma allo stesso tempo punto di ripartenza, insieme a detenute, sportivi, educatori, artisti e religiose, vogliamo rinnovare il nostro impegno per la pace.

L’evento “A REBIBBIA – SCENDIAMO IN CAMPO PER LA PACE” avrà luogo nell’area sportiva dell’Istituto penitenziario. A scendere in campo, per il secondo anno consecutivo, saranno la solidarietà e la generosità di quanti parteciperanno. La giornata sarà strutturata in due momenti: alle 10.00 il torneo quadrangolare di calcetto tra detenuti, operatori penitenziari, sportivi e artisti. Verso le 12.00 avverrà la premiazione delle squadre vincitrici del torneo, seguita da uno momento di festa. L’evento sarà presentato dall’artista Massimo Mattia. Un ringraziamento speciale va a tutti coloro che hanno permesso e contribuito alla realizzazione di questo evento. In particolar modo rinnoviamo il nostro grazie al direttore della Sez. femminile di Rebibbia, la dott.ssa Nadia Fontana, al Comandante dott. Carlo Olmi, alla dott.ssa Alessia Giuliani e a tutta l’Area educativa e alla Polizia penitenziaria. Grazie alle Associazioni e alle Società sportive che, con generosità, hanno aderito all’iniziativa, in special modo alla dott.ssa Cristina Mezzaroma, presidente operativo della SS Lazio. Grazie allo sponsor Bar La Licata, e alle ragazze della squadra di calcio Atletico Diritti di Rebibbia che, anche attraverso lo sport, esprimono tutta la loro voglia di ricominciare e il loro bisogno di condivisione.

Roma, 25 settembre 2023

Nota per accreditarsi: I giornalisti in possesso di tesserino giornalistico, non devono inviare, preventivamente, copia o estremi del documento d’identità. È gradita la conferma di partecipazione della stampa all’indirizzo e-mail: daniela.didomenico@prisonfellowshipitalia.it. Ufficio stampa: Daniela Di Domenico, cell. 339 4590180.

Il Sicomoro per abbattere le distanze

Il Sicomoro per abbattere le distanze

Spesso abbiamo sentito utilizzare l’espressione “giustizia riparativa” senza soffermarci adeguatamente sul suo significato. Il progetto Sicomoro, proposto dall’Associazione Prison Fellowship Italia, si avvale di questo approccio e consiste nel considerare il reato principalmente in termini di danno alle persone e non solamente in quanto reato punibile dalla legge, andando a toccare la morale dei detenuti in rapporto all’illecito commesso.

Il giorno sabato 6 maggio, nella Casa Circondariale Lorusso e Cotugno, si è aperta una nuova sessione di incontri nel reparto dei detenuti definiti “sex offender”, ovvero tutti coloro processati per aver commesso crimini a sfondo sessuale, che nel penitenziario rappresentano la maggioranza.

I volontari del progetto Sicomoro sono stati accompagnati in una stanza adibita a classe scolastica; dopo aver sistemato le sedie in modo da poter formare un semicerchio, si sono sentiti pronti ad accogliere i 12 detenuti (dei 40 iscritti) che avrebbero fatto parte di quel lungo percorso con loro.

Nel progetto Sicomoro nulla è lasciato al caso: la collocazione dei posti a sedere crea un senso di comunità; la disposizione alternata tra vittime e detenuti è pensata in modo da dare l’impressione di essere il più inclusivi possibile; la preparazione dei documenti che i facilitatori distribuiscono a ogni sessione per aiutare i più timidi a orientarsi su un determinato argomento piuttosto che un altro. La locuzione che rappresenta in modo più opportuno la parola d’ordine per la migliore riuscita di questo progetto è però in assoluto “non giudicare”. Non è facile trovarsi davanti a un detenuto senza avere quell’enorme carico di pregiudizi alle spalle che premono per uscire e che rischiano di essere nocivi per l’intero gruppo. Dal momento in cui si passano i controlli e si lasciano i propri oggetti personali nell’armadietto, bisogna liberarsi anche di tutti quei pensieri, quei rancori e quei preconcetti che dipingono il detenuto come quello “scarto di società” che andrebbe messo in gabbia facendo sparire per sempre la chiave. A volte sono più umani di quanto ci si possa aspettare.

Si dice che questo progetto lavori a 360 gradi perché a mettersi a nudo non sono solamente i ragazzi all’interno del penitenziario, ma anche i volontari. È evidente l’evoluzione del rapporto che avviene in soli sette incontri, in cui pian piano il muro che li divide viene scalfito fino a crollare. Ogni storia raccontata, ogni cuore aperto e ogni lacrima versata aiutano a indebolire quelle maschere che ognuno di noi tiene ben strette sul volto e che difficilmente lascia cadere a terra per mostrare le cicatrici che si hanno.

Credo che ciò che colpisce maggiormente di questo progetto sia come i partecipanti si commuovano l’uno per l’altro, a volte dimenticandosi di sé stessi per concentrarsi sull’altra persona. Grazie a una visione esterna, i detenuti riescono a cogliere alcuni aspetti della propria situazione che precedentemente non avevano minimamente preso in considerazione. Inoltre, stupisce come venga plasmata la propria percezione nei confronti dell’altro sesso e del reato commesso, fino ad arrivare alla consapevolezza di quel gesto e delle sue conseguenze.

Il lavoro dei facilitatori non è sempre semplice perché le persone che partecipano al corso arrivano da realtà molto diverse, a volte addirittura opposte, e lo scontro è dietro l’angolo. Spesso è capitato che ci si confrontasse su argomenti affini al contenuto del corso, per poi finire su strade lontane e tortuose. Si rischia così di perdersi in malcontenti e nervosismi da entrambi i lati. È in queste occasioni che i più anziani del progetto sanno riconoscere la sottile linea che divide una conversazione complessa ma fruttuosa da una pericolosa che va soppressa sul nascere. Ogni spunto è ben accetto, ma la sicurezza prima di tutto.

Il momento che ha rappresentato maggiormente lo scopo del corso si è verificato durante il penultimo incontro; ognuno ha letto a voce alta la lettera preparata durante la settimana, indirizzata alle persone che hanno influenzato maggiormente la propria vita; per alcuni la propria vittima, per altri la propria famiglia o il proprio carnefice. Alla lettura di questi fogli sono susseguiti episodi di commozione e di consapevolezza, perché sì, è stato durante la stesura di queste lettere che molte persone hanno concretizzato alcuni pensieri importanti. Esse sono state in grado di immedesimarsi negli altri andando ad abbattere quel tanto detestato muro che separa vittima da carnefice; due figure che, in alcuni casi, sono unite in una sola persona, consapevole e pronta a maturare.

Mi è rimasto particolarmente impresso un passo di uno dei ragazzi che, parafrasando, diceva che era stato ferito molto durante la sua infanzia; aveva poi provato a ossigenare questa ferita nel modo sbagliato compiendo una serie di errori che lo hanno condotto nel carcere. Il termine “ossigenare” rappresenta alla perfezione quel tentativo maldestro di curare una ferita utilizzando lo strumento sbagliato. È vero che il primo passo è quello di disinfettare una lesione, ma senza avere le garze e una pomata difficilmente questo taglio riuscirà a guarire. Questa è purtroppo la motivazione di molte persone che si trovano in detenzione in Italia e che sembra abbiano difficoltà ad avere quegli aiuti psicologici di cui avrebbero bisogno, anche all’interno della struttura stessa. Il progetto Sicomoro per loro non solo è stato una valvola di sfogo, ma motivo di crescita personale e collettiva. Lo stesso è stato per i volontari, per i quali il progetto Sicomoro ha determinato la necessità di riscatto e riappropriazione della propria vita.

di Ilaria Lavia

La gioia di servire

La gioia di servire

Non sono solita scrivere ma questa volta penso sia giusto farlo.

Oggi abbiamo iniziato il “Viaggio del Prigioniero”, un’esperienza di cui spesso abbiamo sentito parlare ma che pochi conoscono!
L’esperienza nasce da Prison Fellowship Italia onlus (PFIt), di cui tutti conosciamo l’impegno mirato al recupero dei detenuti.
È stato un incontro entusiasmante in un luogo, la prigione di Fossombrone (PU), pieno di luce; con il personale penitenziario e gli educatori che ti accolgono con il sorriso sulle labbra e sembrano felici di lavorare in un ambiente in cui nessuno vorrebbe stare. È stato veramente un incontro sorprendente, il primo di otto già fissati.
Il mio desiderio è quello di comunicare a tutti questa meravigliosa esperienza e la consapevolezza che è possibile scontare un errore commesso. Anche in un ambiente accogliente, reso tale da persone che sanno amare anche attraverso il lavoro, duro e a volte non capito.

Noi continueremo: PFIt ci offre idee efficaci ed esperienza.
Noi ci metteremo l’impegno. Per noi sarà solo una gioia!
Grazie quindi a coloro che hanno creduto nel progetto, grazie a tutti quelli che con la preghiera ci hanno seguito e continueranno a farlo; grazie a Marcella Reni, Presidente di PFI Italia, a Teresa responsabile Prison per le Marche. Grazie ai nostri cappellani che hanno immediatamente capito l’importanza del progetto e della sua riuscita.
Affidiamo allo Spirito Santo tutti i nostri fratelli carcerati, il personale, i volontari e tutte le persone che guardano al domani
con una speranza più vera, magari aiutati da Prison.

Anna Maria Lazzari