da Editore Prison | Lug 26, 2023 | Blog
Spesso abbiamo sentito utilizzare l’espressione “giustizia riparativa” senza soffermarci adeguatamente sul suo significato. Il progetto Sicomoro, proposto dall’Associazione Prison Fellowship Italia, si avvale di questo approccio e consiste nel considerare il reato principalmente in termini di danno alle persone e non solamente in quanto reato punibile dalla legge, andando a toccare la morale dei detenuti in rapporto all’illecito commesso.
Il giorno sabato 6 maggio, nella Casa Circondariale Lorusso e Cotugno, si è aperta una nuova sessione di incontri nel reparto dei detenuti definiti “sex offender”, ovvero tutti coloro processati per aver commesso crimini a sfondo sessuale, che nel penitenziario rappresentano la maggioranza.
I volontari del progetto Sicomoro sono stati accompagnati in una stanza adibita a classe scolastica; dopo aver sistemato le sedie in modo da poter formare un semicerchio, si sono sentiti pronti ad accogliere i 12 detenuti (dei 40 iscritti) che avrebbero fatto parte di quel lungo percorso con loro.
Nel progetto Sicomoro nulla è lasciato al caso: la collocazione dei posti a sedere crea un senso di comunità; la disposizione alternata tra vittime e detenuti è pensata in modo da dare l’impressione di essere il più inclusivi possibile; la preparazione dei documenti che i facilitatori distribuiscono a ogni sessione per aiutare i più timidi a orientarsi su un determinato argomento piuttosto che un altro. La locuzione che rappresenta in modo più opportuno la parola d’ordine per la migliore riuscita di questo progetto è però in assoluto “non giudicare”. Non è facile trovarsi davanti a un detenuto senza avere quell’enorme carico di pregiudizi alle spalle che premono per uscire e che rischiano di essere nocivi per l’intero gruppo. Dal momento in cui si passano i controlli e si lasciano i propri oggetti personali nell’armadietto, bisogna liberarsi anche di tutti quei pensieri, quei rancori e quei preconcetti che dipingono il detenuto come quello “scarto di società” che andrebbe messo in gabbia facendo sparire per sempre la chiave. A volte sono più umani di quanto ci si possa aspettare.
Si dice che questo progetto lavori a 360 gradi perché a mettersi a nudo non sono solamente i ragazzi all’interno del penitenziario, ma anche i volontari. È evidente l’evoluzione del rapporto che avviene in soli sette incontri, in cui pian piano il muro che li divide viene scalfito fino a crollare. Ogni storia raccontata, ogni cuore aperto e ogni lacrima versata aiutano a indebolire quelle maschere che ognuno di noi tiene ben strette sul volto e che difficilmente lascia cadere a terra per mostrare le cicatrici che si hanno.
Credo che ciò che colpisce maggiormente di questo progetto sia come i partecipanti si commuovano l’uno per l’altro, a volte dimenticandosi di sé stessi per concentrarsi sull’altra persona. Grazie a una visione esterna, i detenuti riescono a cogliere alcuni aspetti della propria situazione che precedentemente non avevano minimamente preso in considerazione. Inoltre, stupisce come venga plasmata la propria percezione nei confronti dell’altro sesso e del reato commesso, fino ad arrivare alla consapevolezza di quel gesto e delle sue conseguenze.
Il lavoro dei facilitatori non è sempre semplice perché le persone che partecipano al corso arrivano da realtà molto diverse, a volte addirittura opposte, e lo scontro è dietro l’angolo. Spesso è capitato che ci si confrontasse su argomenti affini al contenuto del corso, per poi finire su strade lontane e tortuose. Si rischia così di perdersi in malcontenti e nervosismi da entrambi i lati. È in queste occasioni che i più anziani del progetto sanno riconoscere la sottile linea che divide una conversazione complessa ma fruttuosa da una pericolosa che va soppressa sul nascere. Ogni spunto è ben accetto, ma la sicurezza prima di tutto.
Il momento che ha rappresentato maggiormente lo scopo del corso si è verificato durante il penultimo incontro; ognuno ha letto a voce alta la lettera preparata durante la settimana, indirizzata alle persone che hanno influenzato maggiormente la propria vita; per alcuni la propria vittima, per altri la propria famiglia o il proprio carnefice. Alla lettura di questi fogli sono susseguiti episodi di commozione e di consapevolezza, perché sì, è stato durante la stesura di queste lettere che molte persone hanno concretizzato alcuni pensieri importanti. Esse sono state in grado di immedesimarsi negli altri andando ad abbattere quel tanto detestato muro che separa vittima da carnefice; due figure che, in alcuni casi, sono unite in una sola persona, consapevole e pronta a maturare.
Mi è rimasto particolarmente impresso un passo di uno dei ragazzi che, parafrasando, diceva che era stato ferito molto durante la sua infanzia; aveva poi provato a ossigenare questa ferita nel modo sbagliato compiendo una serie di errori che lo hanno condotto nel carcere. Il termine “ossigenare” rappresenta alla perfezione quel tentativo maldestro di curare una ferita utilizzando lo strumento sbagliato. È vero che il primo passo è quello di disinfettare una lesione, ma senza avere le garze e una pomata difficilmente questo taglio riuscirà a guarire. Questa è purtroppo la motivazione di molte persone che si trovano in detenzione in Italia e che sembra abbiano difficoltà ad avere quegli aiuti psicologici di cui avrebbero bisogno, anche all’interno della struttura stessa. Il progetto Sicomoro per loro non solo è stato una valvola di sfogo, ma motivo di crescita personale e collettiva. Lo stesso è stato per i volontari, per i quali il progetto Sicomoro ha determinato la necessità di riscatto e riappropriazione della propria vita.
di Ilaria Lavia
da Editore Prison | Lug 21, 2023 | Blog
Non sono solita scrivere ma questa volta penso sia giusto farlo.
Oggi abbiamo iniziato il “Viaggio del Prigioniero”, un’esperienza di cui spesso abbiamo sentito parlare ma che pochi conoscono!
L’esperienza nasce da Prison Fellowship Italia onlus (PFIt), di cui tutti conosciamo l’impegno mirato al recupero dei detenuti.
È stato un incontro entusiasmante in un luogo, la prigione di Fossombrone (PU), pieno di luce; con il personale penitenziario e gli educatori che ti accolgono con il sorriso sulle labbra e sembrano felici di lavorare in un ambiente in cui nessuno vorrebbe stare. È stato veramente un incontro sorprendente, il primo di otto già fissati.
Il mio desiderio è quello di comunicare a tutti questa meravigliosa esperienza e la consapevolezza che è possibile scontare un errore commesso. Anche in un ambiente accogliente, reso tale da persone che sanno amare anche attraverso il lavoro, duro e a volte non capito.
Noi continueremo: PFIt ci offre idee efficaci ed esperienza.
Noi ci metteremo l’impegno. Per noi sarà solo una gioia!
Grazie quindi a coloro che hanno creduto nel progetto, grazie a tutti quelli che con la preghiera ci hanno seguito e continueranno a farlo; grazie a Marcella Reni, Presidente di PFI Italia, a Teresa responsabile Prison per le Marche. Grazie ai nostri cappellani che hanno immediatamente capito l’importanza del progetto e della sua riuscita.
Affidiamo allo Spirito Santo tutti i nostri fratelli carcerati, il personale, i volontari e tutte le persone che guardano al domani
con una speranza più vera, magari aiutati da Prison.
Anna Maria Lazzari
da Editore Prison | Giu 28, 2023 | Blog, Storie
Volevo ringraziarvi uno a uno perché, mossi dallo Spirito, dalla curiosità e forse anche dal mio entusiasmo ☺️, avete accettato il mio invito e, insieme, abbiamo potuto vivere la splendida giornata di ieri.
Fin da subito, appena venuta a conoscenza del progetto “Viaggio del prigioniero”, The Prisoner’s Journey (TPJ), mi sono sentita “attratta”. Il nome stesso del progetto mi aveva attratto e, sicuramente, avendo già vissuto l’esperienza del Sicomoro mi sono sentita in qualche modo coinvolta, pur sapendo poche cose sul “TPJ”. Ieri è stata una splendida scoperta, grazie anche ad Antonella e Francesca, che ringrazio.
Ho scoperto che far conoscere Gesù in modo efficace usando le parole è tutt’altro che semplice. Testimoniare con la vita, coerenti con quanto udito dalla Parola di Dio, è un altro bell’impegno, che si rinnova ogni giorno e ogni giorno, nel prendere atto delle nostre cadute, cerchiamo di migliorare.
Ma far conoscere Gesù in otto incontri, solamente 16 ore, è una bellissima seppur faticosa sfida! Ho capito che accettare questa sfida migliorerebbe il mio rapporto con Dio, lo renderebbe più vero, più profondo. Ritornare all’Essenziale anzi all’Essenza del mio “credo”. È stato difficile, nelle simulazioni, fare questo. È stato come quando si mette a posto negli armadi, ad esempio, della cucina (scusate il paragone ma ho appena finito di fare questo lavoro). Nel tempo accumuli un sacco di cose, tutte utili ma molte di queste le usi solo qualche volta. Nel rimettere in ordine, queste ultime le metti dietro, in fondo all’armadio o in alto. Quelle veramente utili, invece, le posizioni davanti, bene in vista, facili da prendere. Non butti nulla ma metti in ordine cercando di distinguere ciò che serve veramente da ciò che potrebbe invece servire un giorno in chissà quale occasione.
Pensavo anche a quando si prepara la valigia per le vacanze. Che fatica decidere cosa portare e cosa lasciare a casa!
Fare chiarezza. Mettere in ordine.
Ecco, ieri ho capito che nella valigia dell’evangelizzatore servono poche cose ma giuste.
Ho capito che Gesù parla ai semplici in modo semplice.
Ho capito che, se parto per la missione, devo ritornare semplice nel mio pensare e nel mio parlare, prendendo esempio da Gesù.
Grazie Gesù perché quando ancora stiamo pensando se dire di “sì” alla missione, Tu già inizi a guarirci e a fare un po’ di pulizia in noi.
Testimonianza di Anna Maria Taliano
da Editore Prison | Giu 20, 2023 | Blog
Progetto Sicomoro presso la Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino
Intervista ad Arcangelo Lucà, socio di PF Italia di Daniela Di Domenico
- – Un altro Progetto Sicomoro (PS) si è recentemente concluso e un altro è appena iniziato nella Casa circondariale Lorusso Cutugno di Torino. Da anni l’Associazione Prison Fellowship Italia onlus (PFIt) porta avanti, tra tante iniziative, questo progetto. Perché è importante questa esperienza per detenuti e vittime di reato?
R.– A un colloquio con una direttrice che vedevamo per la prima volta e cercavamo di spiegare il PS, ci siamo sentiti dire: “Io conosco molto bene il PS, esso migliora tutti i rapporti dell’ambiente carcerario, tutti; tra e con detenuti, educatori, agenti e tutto il personale”. Questo succede: i ragazzi detenuti trovano persone sincere che non giudicano ma che si affezionano a loro, dedicandogli tanto. Vedere le lacrime e la sofferenza di ogni vittima ti porta a prendere coscienza del male che hanno fatto.
Le vittime hanno la possibilità di parlare, di “tirare via il tappo” e svuotare tutto, ma anche di conoscere umanamente una persona che viene a chiedere loro perdono per un reato commesso e che loro non conoscono nemmeno. Questo è disarmante. Anche perché i detenuti quasi sempre sono a loro volta delle vittime: da dipendenze quali droga e alcol.
Personalmente, verso le vittime nutro una particolare attenzione; spesso sono persone dimenticate da tutti, dai familiari e dalle Istituzioni e… ahimè ferme al giorno del reato.
Recentemente ci è stato detto da E.: “Non finirò mai di ringraziarvi per avermi invitato a partecipare, è un ‘mondo meraviglioso’ che non conoscevo”. Oppure M., ultrasettantenne, ha cambiato modo di vestire, è tornata a truccarsi e a guidare in posti in cui non aveva il coraggio di andare da 20 anni.
- – In che modo vengono selezionati e scelti i partecipanti al Progetto, sia vittime che colpevoli?
R.– Nel 2019 abbiamo fatto il primo PS nell’Istituto torinese. Prima di tutto abbiamo presentato il Progetto al direttore; di comune accordo abbiamo individuato un padiglione e, dopo una presentazione a tutto il reparto (chiara e completa, dando spazio anche alle loro domande), abbiamo messo in evidenza che la partecipazione è su base volontaria, che non ci saranno sconti di pena e abbiamo specificato tutte le regole da rispettare (sincerità, rispetto reciproco, riservatezza, puntualità ecc.). Poi, chiediamo agli educatori del reparto di fornirci, tra tutti gli iscritti, una lista di 8/10 nominativi. Ritengo che 8 sia il numero ideale per lavorare bene ma è meglio averne qualcuno in più perché durante le sette settimane qualcuno, per vari motivi, si perde e abbandona il Progetto.
Per quanto riguarda le vittime, è il lavoro più lungo e complesso da fare. In genere i grandi annunci presso associazioni non portano a nessun risultato. A Torino le vittime le abbiamo sempre individuate attraverso il passaparola. Gioisco ogni volta che ricevo un “sì” alla partecipazione di una vittima, perché quando essa decide di partecipare senza timore, è perché è pronta a raccontare cosa porta nel cuore. Ed è proprio da qui che ha inizio la sua guarigione.
- – Durante gli incontri tra vittime e colpevoli, lei ricopre il delicatissimo ruolo di moderatore/facilitatore. Per chi volesse entrare a far parte dell’équipe, quali sono le caratteristiche che deve avere un moderatore/facilitatore e quali sono le modalità per poter aderire a un corso di formazione?
R.– Per il ruolo di facilitatore abbiamo un fratello speciale che viene da Vicenza e, nonostante tutte le volte faccia tante ore di strada, è sempre fresco e sorridente. Abbiamo poi un’altra sorella di provata esperienza che è al 12° PS; è rinata da una storia tragica di tanta povertà e conosce, meglio di molti altri, le dinamiche del PS. Il bravo facilitatore, in realtà, quando facilita sta zitto, nel senso che il PS lo conducono le vittime e i detenuti. Lui deve solo intervenire all’occorrenza. Tutto nasce dal confronto tra le parti, confronto che, a volte, può essere anche acceso. L’esperienza si acquista direttamente sul campo. In alcuni casi, dopo aver partecipato a 3 o 4 PS, si può provare a condurre un progetto, anche con il sostegno dei manuali, scritti veramente bene. A tal fine, portiamo sempre qualche volontario in più come uditore, per fare esperienza. Dopo il primo PS o si appassiona – e allora va avanti – oppure abbandona perché non si ritiene adatto per questo delicatissimo ruolo.
Nel 2017 in Piemonte, con tutte le realtà presenti nelle carceri della Regione, abbiamo proposto un corso di formazione di 4 giorni a cui hanno aderito circa 40 partecipanti.
- – Cosa comporta la pianificazione di un Progetto Sicomoro?
R.– Il PS, oltre ai 7 incontri in carcere, richiede tanto lavoro nella preparazione. Presentazione, permessi da richiedere, detenuti da individuare, educatori e agenti da informare, stabilire luogo e concordare la data degli incontri per incastrare tutto con le altre attività ed esigenze. Ancora, individuare le vittime e incontrarle (anche più di una volta) per fugare ogni dubbio (altrimenti qualcuno si potrebbe ritirare); preparare la documentazione per il corso, ma anche dolcetti e bibite da condividere. Poi ci sono i gruppi di intercessione e la diffusione del Progetto con vario materiale dimostrativo, anche allo scopo di poter contattare potenziali vittime per il futuro. Verificare permessi e documenti. Infine, va organizzato l’“ottavo incontro”, la “festa conclusiva” e la conferenza stampa con le istituzioni e i familiari dei partecipanti al PS. Per quest’ultimo step davvero mi inchino alla disponibilità e collaborazione di tantissimi fratelli e sorelle con esperienza e professionalità nel settore. Prezioso il confronto e ogni consiglio.
- – Da ormai molti anni, presente in America ma anche in molti altri Paesi del mondo fino in Italia, il Progetto Sicomoro raggiunge ovunque notevoli risultati nell’ambito della giustizia riparativa. Come il Progetto Sicomoro contribuisce al recupero e alla consapevolezza del danno recato da parte di un detenuto? Che cosa cambia nel cuore di chi si è macchiato di un grave reato?
R.– Posso dire che tanti, davvero, ce l’hanno fatta! Penso alle parole di M.: “…Il ‘miracolo’ è avvenuto e mi ha dato ciò che non avevo capito di aver perso nella ragione, nella razionalità, nell’equilibrio”. Ho conosciuto persone che, a ogni incontro, mi donavano, nonostante il loro passato, un saluto vero, un abbraccio forte, un sorriso rincuorante. Hanno saputo riconsegnarmi quelle “medicine giuste” di cui il mio vivere quotidiano aveva bisogno. Oppure penso a G., ergastolano, laurea triennale conseguita all’interno dell’istituto (e adesso sta finendo la magistrale), che lavora tutto il giorno alle videochiamate e non manca mai di incoraggiare i compagni reclusi. Ancora R., conosciuto come l’amico delle caramelle: ha sempre caramelle in tasca per avvicinare chiunque e dargli una pacca sulle spalle. Potrei continuare con almeno altre 20 storie! Con loro mi sono ricreduto, adesso so che il bene esiste. Ecco, qualcosa cambia e accade ogni volta.
- – Le vittime che aderiscono al Progetto spesso hanno subito abusi o reati gravi. Anche per chi è fortemente credente, non è facile arrivare a perdonare il proprio “aguzzino”. Eppure, alla fine di questo intenso “percorso”, la maggior parte delle vittime arrivano ad abbracciare (sia fisicamente che emotivamente) chi ha commesso lo stesso reato da loro subito. Qual è la strada “impercettibile” che riesce ad aprire un varco nel cuore della vittima…?
R.– Ogni PS è diverso dall’altro; a volte inizia con uno scontro tra le vittime e i detenuti; a volte c’è chi “ci gira intorno” e non vuole condividere quello che ha commesso o subito. Non so come ma ogni volta accade che, negli ultimi 2 o 3 incontri nascono, tra vittime e colpevoli, delle amicizie vere, degli abbracci sinceri. Il gruppo tende a uniformarsi così tanto che, visto dall’esterno, non sarebbe facile distinguere chi è il detenuto, chi la vittima e chi il volontario. Gli occhi bassi e cuori arresi fanno posto a sorrisi, gioia e coraggio. Per noi volontari diventa l’ennesima conferma che un miracolo è accaduto di nuovo!
- – Molti ritengono sbagliato o non giusto entrare in un istituto penitenziario o fare volontariato all’interno del mondo carcerario. Lei perché ha scelto di “visitare” ed essere vicino, in diversi modi, agli ultimi per eccellenza, i detenuti?
R.– “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione” (Voltaire). Quello che ho avuto ben presente la prima volta che sono entrato in un carcere è che questo luogo è un pezzo della società e che le distanze devono essere accorciate sempre di più tra chi sta dentro e chi sta fuori, a prescindere dal discorso religioso e dall’opera di misericordia che ne deriva. Quello che mi ritorna periodicamente in mente è: “Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere” (Eb 13, 3). Sicuramente non è facile, però ti puoi fare compagno di viaggio e in fondo è quello che loro cercano, di non essere lasciati soli. Per questo a fine progetto facciamo degli incontri mensili di mantenimento; vanno alcuni volontari con alcune vittime che non vogliono smettere di visitare i detenuti. Tante vittime “liberate” entrano a far parte della nostra squadra. Poi abbiamo la possibilità di comunicare via mail e con tanti continuiamo a corrispondere.
- – Partecipare al Progetto Sicomoro sicuramente comporta uno stravolgimento dei sentimenti e dei pensieri, una rivoluzione inaspettata nel cuore, sia per le vittime che per i responsabili di reato. Per lei cosa è cambiato? Sente di essere una persona diversa?
R.– Dalle tante storie che ho potuto conoscere, sia di vittime che di persone detenute, la prima cosa che ho imparato è che il tempo è il bene più prezioso che abbiamo e non va sprecato. Questo mi ha permesso di leggere tutta la mia vita e capire sbagli e mancanze; anche a chiedere scusa per questo. Le nostre azioni vanno ponderate bene, perché da un errore piccolo possono nascere conseguenze enormi. L’immagine è quella del sasso gettato in uno stagno: fa cerchi sempre più ampi fino a toccare la riva. Se sono una persona diversa non lo so… Certo, i detenuti mi hanno reso migliore ed è stato un vero piacere. Ogni sabato, alle 12, quando l’agente del piano viene a bussare perché il tempo è scaduto, a malincuore lasciamo i nostri “amici”. Durante le sette settimane del progetto, si aspetta sempre con ansia che arrivi il sabato per andare a trovare i detenuti e, quando il P.S. termina, ci si rende conto che un pezzo del nostro cuore è ancora lì ma il sabato successivo non potremmo rivederli. Sono le “regole” del Progetto ma poi si acquisisce la consapevolezza che da quel momento loro possono farcela da soli e che tu hai preso parte a questo miracolo. Avanti, siamo ancora pochi e ci sono ancora tanti cuori da liberare!
da Editore Prison | Giu 6, 2023 | Blog
Oggi Gianni ha un impegno e quindi deve uscire per un’ora.
Poco dopo il suo rientro facciamo la solita pausa di dieci minuti durante la quale le vittime offrono a tutti i cioccolatini. Gianni viene subito da me: “Pierpaolo, mi puoi far vedere la lettera, indirizzata alla sua vittima, che Fabio ha appena letto”. “Certo”.
Mentre la cerco fra le altre lui continua: “Questa settimana ne abbiamo parlato a lungo assieme, per riuscire a trovare il modo migliore per esternare i suoi sentimenti. Poi lui l’ha scritta e ha piacere che io la legga”. Ma allora è vero, sta succedendo veramente, non è un sogno. Mentre gliela porgo la mia mente ritorna a mezz’ora prima. Proprio quando Fabio ha terminato di leggere la sua lettera, era il terzo o il quarto, comincia un’animata discussione alla quale partecipano tutti. “Se l’avessi saputo prima ti avrei aiutato, ma vedrai che adesso insieme qualcosa troveremo”. “E’ capitato anche a me, in settimana ne parliamo”. “Ma allora era per questo che stavi sempre isolato. Insieme possiamo risolvere il problema”. “Hai visto che buttando fuori tutto ti sei liberato del grosso peso che ti stava distruggendo, continuiamo”. I toni e gli argomenti erano questi. Stavano scoprendo che, abbattendo tutti i muri che in tanti anni avevano costruito attorno ai loro cuori, potevano tornare a vivere. La mia mente torna ancora più indietro, alla presentazione. La direzione e le educatrici del carcere di Torino ci avevano chiesto di attuare il progetto sicomoro nel reparto “sex offender”, termine usato per indicare le persone che hanno usato violenza verso le persone più deboli, donne e bambini. Sono anche chiamati “i protetti”, perché praticamente sono in un carcere dentro al carcere, isolati da tutti per evitare ritorsioni fisiche, isolati da tutti perché disprezzati da tutti, isolati da tutti perché considerati indegni del convivere sociale. Non era mai stato effettuato in Italia e raramente nel mondo Prison. Decidiamo di provare nella speranza di comprendere ed aiutare queste persone, grazie anche alla volontà delle vittime, che dovevano ripercorrere i momenti più bui della propria vita.
La presentazione, come poi il progetto, si svolge nel reparto. Ci arriviamo percorrendo lunghissimi corridoi. L’aspetto era sempre più trasandato e tale appariva anche il reparto e la stanza dell’incontro.
Entrano tutti a testa bassa e con lo sguardo sfuggente. Durante la spiegazione li osservo tutti attentamente e la sensazione era quella di trovarmi davanti alte mura di omertà personale. Decisi subito che quelle mura erano il principale ostacolo. Alla fine più di quaranta danno l’adesione e le educatrici ne scelgono dodici.
Alla fine del primo incontro comincio ad avere seri dubbi sulla validità della giustizia: di veramente colpevoli praticamente nessuno. Sì, ognuno qualcosa aveva fatto, ma sempre appena al di sopra della normale convivenza tra coniugi, tra genitori e figli, tra amanti, naturalmente a loro giudizio. Anche le vittime non si sono esposte, probabilmente per adeguarsi al clima generale. Per fortuna, già dal secondo incontro, le storie e le vite cominciano a prendere una forma concreta, pur nella crudezza e nell’asprezza dei fatti. Anche le vittime riescono a ricostruire le traversie e le violenze subite scavando nel buco profondo nel quale le avevano cacciate per non continuare a soffrire. A poco a poco i ristretti cominciano a rendersi conto del reale impatto causato dalle loro azioni e le vittime scoprono le persone che indirettamente hanno causato loro tanto dolore. Il confronto decollava tra fatti tremendi, pianti infiniti, commozione generale, cuori travolti, abbracci consolatori. Il progetto sembrava procedere bene, ma c’era ancora quello scoglio: ognuno pensava e parlava per se stesso! Ma ecco le lettere che vengono lette negli ultimi due incontri. Sinceramente non credevo ai miei orecchi. Era cambiata completamente la prospettiva: tutti i fatti venivano visti, narrati e commentati con gli occhi di chi subiva e i cuori cambiavano visivamente.
La discussione iniziata dopo la lettera di Fabio era il coronamento di tutto il progetto.
Per molti minuti non ho mosso muscolo. Avevo paura che una parola o un gesto potesse inavvertitamente interrompere l’atmosfera creatasi. Ma c’erano le colombe pasquali portate da Aurora e Caterina, le bibite, i cioccolatini e quindi con la bocca piena di dolci e il cuore pieno di gioia la festa poteva continuare. Alla fine, come sempre in cerchio mano nella mano, preghiamo con la sura coranica di Emanuele e l’ave Maria.
Pierpaolo