Mi siedo in macchina, metto in moto e parto. Non ho nessuna voglia di guidare, non ho nessuna voglia di guardare 350 km di strada pieni di auto e camion. Desidero solo chiudere gli occhi e pensare. La mia mente non vede l’ora di fare esplodere tutti i sogni elaborati nelle due ore precedenti.
La mia volontà si indebolisce sempre di più e si lascia sopraffare.
Siamo nel pieno del Progetto Sicomoro di Fossombrone. Questo quarto incontro appena concluso si è rivelato una continua battaglia psicologica combattuta con clave e fioretti, senza risparmio di colpi da parte di tutti.
Iniziamo col fare un po’ di chiarezza. Partecipano a questo progetto sette ristretti, quattro vittime, due facilitatori e un apprendista, proprio nel senso che desidera apprendere e conoscere il progetto.
Il primo incontro comincia subito con una serie di botti inaspettati: al momento delle presentazioni personali, il primo detenuto spiattella tutte le sue colpe, delle quali si assume le responsabilità, spaziando in quasi tutte le direzioni. Incoraggiati o rassicurati, tutti gli altri si adeguano e lo stesso fanno le vittime.
Nessuno cerca scusanti o cerca attenuanti per il proprio comportamento, tanto che desta quasi sorpresa quello che afferma: “Eravamo in due, uno di fronte all’altro e uno doveva morire. Se fossi stato io la mia famiglia sarebbe stata distrutta dalla perdita, mentre lui sarebbe stato sicuramente arrestato e la sua famiglia avrebbe dovuto convivere con la pessima reputazione e tutti i pregiudizi per un familiare delinquente. Invece è successo il contrario e le parti si sono invertite.” L’ultima presentazione termina esattamente allo scoccare delle due ore.
Le riflessioni durante la settimana devono essere state molte perché tutto il secondo incontro è stato un susseguirsi di domande e precisazioni. Hanno fatto tutto loro tanto che io mi sono limitato ai saluti iniziali e finali. Abbiamo scoperto fra noi un magnifico poeta. Proprio lui, l’unico che la prima volta non aveva voluto parlare, supera la sua timidezza leggendoci una dolce e commovente poesia che raccontava la sua vita. Naturalmente già dal primo incontro abbiamo preso l’abitudine della preghiera finale.
Nel terzo incontro cominciano i guai. Quasi tutti i detenuti ritengono di aver già dato, nel senso di aver già detto tutto quello che potevano o volevano dire. Naturalmente non lo dicono apertamente ma lo fanno chiaramente capire. Per cominciare si dichiarano fortemente contrari alla giornata conclusiva con “estranei”. Il cerchio di fiducia e confidenza istaurato nel primo incontro deve rimanere tale sino alla fine.
Questo comportamento si può anche spiegare con la situazione all’interno del carcere. Siamo in zona di massima sicurezza e le celle si aprono solo per l’ora d’aria. I rapporti sono molto difficili tanto che realmente non tutti sanno tutto di tutti. Alla precisa domanda sul senso di responsabilità: “C’è stato un preciso momento nel quale in tutta libertà avete scelto tra il bene ed il male”, sono cominciati gli scarichi sulle famiglie che per necessità o per noncuranza abbandonano i figli sulla strada, sul degrado di certi quartieri, sui falsi idoli da imitare. Tutte cause giuste e importanti ma era il tono che non convinceva. Per un po’ il fuoco è covato sotto la cenere ma ad un certo punto due vittime sono esplose e si sono scagliate contro il detenuto che aveva appena finito di filosofare sulla sua gioventù. Minuti, parole, epiteti molto accesi che per fortuna sono arrivati quando il tempo stava per scadere. Qualche ragionevole spiegazione e la preghiera finale hanno permesso di far sbollire gli animi.
E finalmente arriviamo ad oggi. Appena entrato, il detenuto, vittima delle vittime, mi sussurra: “Questo per me è l’ultimo incontro, sono venuto per salutarvi, come atto di cortesia”. Già avevo deciso di basarmi sul suo intervento dell’altra volta per spiegare bene i concetti di confessione e pentimento, naturalmente integrandolo con gli altri, così invece premo di più su di lui, specialmente sul fatto che su tutti i suoi interventi e su tutti i suoi scritti non apparivano mai le figure delle vittime. Lui si difende puntando sul fatto che il suo atteggiamento è una forma di difesa. Subito un altro detenuto lo appoggia dicendo che tutti loro devono trovare il modo di metabolizzare il loro passato, altrimenti tutti si suiciderebbero. Una delle due vittime sbottate, Caterina, dice di capirlo e spiega la sua esplosione dell’altra volta. Si parlano e si giustificano a vicenda. L’altra vittima fa lo stesso. Poi intervengono anche gli altri detenuti per giustificarlo. Dopo pochi minuti scopro che l’unico “cattivo” in quella stanza ero io. Sinceramente io invece ero molto contento perché tutto questo l’aveva riportato nel gruppo e spero che la prossima volta ci sarà. Inoltre lui si spinge più in là. È una persona molto intelligente. Entrato in carcere con l’elementare, adesso ha due lauree con 110 e lode. Ci spiega: “La vita in carcere, specialmente in regime di massima sicurezza, è molto dura. Luoghi disastrati, vita disagevole, scarse possibilità di rieducazione, tutto porta a trasformare i detenuti in vittime del sistema, vittime di loro stessi. Tutto questo li obbliga a mettere in disparte le loro effettive vittime e a difendere per quanto possibile la loro posizione.” Ancora una volta torna l’affermazione che l’unica alternativa sarebbe il suicidio.
Il nuovo clima ci spinge a sotterrare le clave per armarci di fioretto. Si capisce subito che le stoccate non vogliono ferire ma solo stuzzicare per permettere a tutti di aprire il loro cuore. Naturalmente la preghiera è un invito a ritrovarci tutti, proprio tutti, la prossima settimana.
Un abbraccio a tutti a nome di tutti.
Pierpaolo
Un ringraziamento particolare a Teresa, che si è spesa in mille modi per permettere lo svolgimento di questo progetto.