Progetto Sicomoro presso la Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino
Intervista ad Arcangelo Lucà, socio di PF Italia di Daniela Di Domenico
- – Un altro Progetto Sicomoro (PS) si è recentemente concluso e un altro è appena iniziato nella Casa circondariale Lorusso Cutugno di Torino. Da anni l’Associazione Prison Fellowship Italia onlus (PFIt) porta avanti, tra tante iniziative, questo progetto. Perché è importante questa esperienza per detenuti e vittime di reato?
R.– A un colloquio con una direttrice che vedevamo per la prima volta e cercavamo di spiegare il PS, ci siamo sentiti dire: “Io conosco molto bene il PS, esso migliora tutti i rapporti dell’ambiente carcerario, tutti; tra e con detenuti, educatori, agenti e tutto il personale”. Questo succede: i ragazzi detenuti trovano persone sincere che non giudicano ma che si affezionano a loro, dedicandogli tanto. Vedere le lacrime e la sofferenza di ogni vittima ti porta a prendere coscienza del male che hanno fatto.
Le vittime hanno la possibilità di parlare, di “tirare via il tappo” e svuotare tutto, ma anche di conoscere umanamente una persona che viene a chiedere loro perdono per un reato commesso e che loro non conoscono nemmeno. Questo è disarmante. Anche perché i detenuti quasi sempre sono a loro volta delle vittime: da dipendenze quali droga e alcol.
Personalmente, verso le vittime nutro una particolare attenzione; spesso sono persone dimenticate da tutti, dai familiari e dalle Istituzioni e… ahimè ferme al giorno del reato.
Recentemente ci è stato detto da E.: “Non finirò mai di ringraziarvi per avermi invitato a partecipare, è un ‘mondo meraviglioso’ che non conoscevo”. Oppure M., ultrasettantenne, ha cambiato modo di vestire, è tornata a truccarsi e a guidare in posti in cui non aveva il coraggio di andare da 20 anni.
- – In che modo vengono selezionati e scelti i partecipanti al Progetto, sia vittime che colpevoli?
R.– Nel 2019 abbiamo fatto il primo PS nell’Istituto torinese. Prima di tutto abbiamo presentato il Progetto al direttore; di comune accordo abbiamo individuato un padiglione e, dopo una presentazione a tutto il reparto (chiara e completa, dando spazio anche alle loro domande), abbiamo messo in evidenza che la partecipazione è su base volontaria, che non ci saranno sconti di pena e abbiamo specificato tutte le regole da rispettare (sincerità, rispetto reciproco, riservatezza, puntualità ecc.). Poi, chiediamo agli educatori del reparto di fornirci, tra tutti gli iscritti, una lista di 8/10 nominativi. Ritengo che 8 sia il numero ideale per lavorare bene ma è meglio averne qualcuno in più perché durante le sette settimane qualcuno, per vari motivi, si perde e abbandona il Progetto.
Per quanto riguarda le vittime, è il lavoro più lungo e complesso da fare. In genere i grandi annunci presso associazioni non portano a nessun risultato. A Torino le vittime le abbiamo sempre individuate attraverso il passaparola. Gioisco ogni volta che ricevo un “sì” alla partecipazione di una vittima, perché quando essa decide di partecipare senza timore, è perché è pronta a raccontare cosa porta nel cuore. Ed è proprio da qui che ha inizio la sua guarigione.
- – Durante gli incontri tra vittime e colpevoli, lei ricopre il delicatissimo ruolo di moderatore/facilitatore. Per chi volesse entrare a far parte dell’équipe, quali sono le caratteristiche che deve avere un moderatore/facilitatore e quali sono le modalità per poter aderire a un corso di formazione?
R.– Per il ruolo di facilitatore abbiamo un fratello speciale che viene da Vicenza e, nonostante tutte le volte faccia tante ore di strada, è sempre fresco e sorridente. Abbiamo poi un’altra sorella di provata esperienza che è al 12° PS; è rinata da una storia tragica di tanta povertà e conosce, meglio di molti altri, le dinamiche del PS. Il bravo facilitatore, in realtà, quando facilita sta zitto, nel senso che il PS lo conducono le vittime e i detenuti. Lui deve solo intervenire all’occorrenza. Tutto nasce dal confronto tra le parti, confronto che, a volte, può essere anche acceso. L’esperienza si acquista direttamente sul campo. In alcuni casi, dopo aver partecipato a 3 o 4 PS, si può provare a condurre un progetto, anche con il sostegno dei manuali, scritti veramente bene. A tal fine, portiamo sempre qualche volontario in più come uditore, per fare esperienza. Dopo il primo PS o si appassiona – e allora va avanti – oppure abbandona perché non si ritiene adatto per questo delicatissimo ruolo.
Nel 2017 in Piemonte, con tutte le realtà presenti nelle carceri della Regione, abbiamo proposto un corso di formazione di 4 giorni a cui hanno aderito circa 40 partecipanti.
- – Cosa comporta la pianificazione di un Progetto Sicomoro?
R.– Il PS, oltre ai 7 incontri in carcere, richiede tanto lavoro nella preparazione. Presentazione, permessi da richiedere, detenuti da individuare, educatori e agenti da informare, stabilire luogo e concordare la data degli incontri per incastrare tutto con le altre attività ed esigenze. Ancora, individuare le vittime e incontrarle (anche più di una volta) per fugare ogni dubbio (altrimenti qualcuno si potrebbe ritirare); preparare la documentazione per il corso, ma anche dolcetti e bibite da condividere. Poi ci sono i gruppi di intercessione e la diffusione del Progetto con vario materiale dimostrativo, anche allo scopo di poter contattare potenziali vittime per il futuro. Verificare permessi e documenti. Infine, va organizzato l’“ottavo incontro”, la “festa conclusiva” e la conferenza stampa con le istituzioni e i familiari dei partecipanti al PS. Per quest’ultimo step davvero mi inchino alla disponibilità e collaborazione di tantissimi fratelli e sorelle con esperienza e professionalità nel settore. Prezioso il confronto e ogni consiglio.
- – Da ormai molti anni, presente in America ma anche in molti altri Paesi del mondo fino in Italia, il Progetto Sicomoro raggiunge ovunque notevoli risultati nell’ambito della giustizia riparativa. Come il Progetto Sicomoro contribuisce al recupero e alla consapevolezza del danno recato da parte di un detenuto? Che cosa cambia nel cuore di chi si è macchiato di un grave reato?
R.– Posso dire che tanti, davvero, ce l’hanno fatta! Penso alle parole di M.: “…Il ‘miracolo’ è avvenuto e mi ha dato ciò che non avevo capito di aver perso nella ragione, nella razionalità, nell’equilibrio”. Ho conosciuto persone che, a ogni incontro, mi donavano, nonostante il loro passato, un saluto vero, un abbraccio forte, un sorriso rincuorante. Hanno saputo riconsegnarmi quelle “medicine giuste” di cui il mio vivere quotidiano aveva bisogno. Oppure penso a G., ergastolano, laurea triennale conseguita all’interno dell’istituto (e adesso sta finendo la magistrale), che lavora tutto il giorno alle videochiamate e non manca mai di incoraggiare i compagni reclusi. Ancora R., conosciuto come l’amico delle caramelle: ha sempre caramelle in tasca per avvicinare chiunque e dargli una pacca sulle spalle. Potrei continuare con almeno altre 20 storie! Con loro mi sono ricreduto, adesso so che il bene esiste. Ecco, qualcosa cambia e accade ogni volta.
- – Le vittime che aderiscono al Progetto spesso hanno subito abusi o reati gravi. Anche per chi è fortemente credente, non è facile arrivare a perdonare il proprio “aguzzino”. Eppure, alla fine di questo intenso “percorso”, la maggior parte delle vittime arrivano ad abbracciare (sia fisicamente che emotivamente) chi ha commesso lo stesso reato da loro subito. Qual è la strada “impercettibile” che riesce ad aprire un varco nel cuore della vittima…?
R.– Ogni PS è diverso dall’altro; a volte inizia con uno scontro tra le vittime e i detenuti; a volte c’è chi “ci gira intorno” e non vuole condividere quello che ha commesso o subito. Non so come ma ogni volta accade che, negli ultimi 2 o 3 incontri nascono, tra vittime e colpevoli, delle amicizie vere, degli abbracci sinceri. Il gruppo tende a uniformarsi così tanto che, visto dall’esterno, non sarebbe facile distinguere chi è il detenuto, chi la vittima e chi il volontario. Gli occhi bassi e cuori arresi fanno posto a sorrisi, gioia e coraggio. Per noi volontari diventa l’ennesima conferma che un miracolo è accaduto di nuovo!
- – Molti ritengono sbagliato o non giusto entrare in un istituto penitenziario o fare volontariato all’interno del mondo carcerario. Lei perché ha scelto di “visitare” ed essere vicino, in diversi modi, agli ultimi per eccellenza, i detenuti?
R.– “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione” (Voltaire). Quello che ho avuto ben presente la prima volta che sono entrato in un carcere è che questo luogo è un pezzo della società e che le distanze devono essere accorciate sempre di più tra chi sta dentro e chi sta fuori, a prescindere dal discorso religioso e dall’opera di misericordia che ne deriva. Quello che mi ritorna periodicamente in mente è: “Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere” (Eb 13, 3). Sicuramente non è facile, però ti puoi fare compagno di viaggio e in fondo è quello che loro cercano, di non essere lasciati soli. Per questo a fine progetto facciamo degli incontri mensili di mantenimento; vanno alcuni volontari con alcune vittime che non vogliono smettere di visitare i detenuti. Tante vittime “liberate” entrano a far parte della nostra squadra. Poi abbiamo la possibilità di comunicare via mail e con tanti continuiamo a corrispondere.
- – Partecipare al Progetto Sicomoro sicuramente comporta uno stravolgimento dei sentimenti e dei pensieri, una rivoluzione inaspettata nel cuore, sia per le vittime che per i responsabili di reato. Per lei cosa è cambiato? Sente di essere una persona diversa?
R.– Dalle tante storie che ho potuto conoscere, sia di vittime che di persone detenute, la prima cosa che ho imparato è che il tempo è il bene più prezioso che abbiamo e non va sprecato. Questo mi ha permesso di leggere tutta la mia vita e capire sbagli e mancanze; anche a chiedere scusa per questo. Le nostre azioni vanno ponderate bene, perché da un errore piccolo possono nascere conseguenze enormi. L’immagine è quella del sasso gettato in uno stagno: fa cerchi sempre più ampi fino a toccare la riva. Se sono una persona diversa non lo so… Certo, i detenuti mi hanno reso migliore ed è stato un vero piacere. Ogni sabato, alle 12, quando l’agente del piano viene a bussare perché il tempo è scaduto, a malincuore lasciamo i nostri “amici”. Durante le sette settimane del progetto, si aspetta sempre con ansia che arrivi il sabato per andare a trovare i detenuti e, quando il P.S. termina, ci si rende conto che un pezzo del nostro cuore è ancora lì ma il sabato successivo non potremmo rivederli. Sono le “regole” del Progetto ma poi si acquisisce la consapevolezza che da quel momento loro possono farcela da soli e che tu hai preso parte a questo miracolo. Avanti, siamo ancora pochi e ci sono ancora tanti cuori da liberare!