Sono Michele, ho 54 anni e sono nato a Palermo, città che amo e che mio malgrado decisi di abbandonare nel luglio del 2009 per trasferirmi a Torino, alla ricerca di quella “nuova vita”, che mi permettesse di lasciare alle spalle tutti quegli stupidi ma gravi errori commessi sino ad allora.
Nel settembre del 2016 giungeva inesorabilmente il conto che la giustizia mi chiedeva di pagare per i reati di truffa commessi negli anni 2007 e 2008, periodo che mi vedeva impiegato al Comune di Palermo con la qualifica di vigile urbano prima e geometra dopo. Venivo recluso alle Vallette di Torino per scontare una condanna a 7 anni.
Oramai da tempo quel maledettissimo vizio che prende il nome di “gioco d’azzardo”, aveva portato nella mia vita rovina e distruzione. Però non mi aveva abbattuto, mi rimaneva la cosa più preziosa che avevo: la mia famiglia. Mia moglie Roberta, i miei figli Francesco Emmanuele e Serena, le prime vittime dei miei errori, che stanno ancora pagando, nei sentimenti, nelle ristrettezze, nei sacrifici. Non mi hanno mai abbandonato, mai voltato le spalle nonostante le delusioni, le amarezze, le mortificazioni. Hanno anteposto l’amore e la ragione ai sentimenti di rabbia e di vendetta.
Perché se è vero che da quel settembre 2016, ho conosciuto quanto buio contiene il carcere ed il vivere in esso, oggi ho la gioia di dire che mi ha fatto ritrovare quella luce che da tempo non vedevo così luminosa e raggiante.
Ho iniziato a studiare seriamente, iscrivendomi al Polo Universitario alla facoltà di Scienze Politiche che si trova all’interno dell’istituto, e con altrettanto impegno ho iniziato a studiare me stesso che ritengo aver perso chissà quando e chissà dove, anni e anni addietro.
Sin dal primo momento, mi sono aggrappato alla fede, perché la ritenevo fondamentale per andare avanti, per guarire in primis e per trovare la forza giusta alla mia situazione piena di spine e di problematiche. Oggi sono in grado di affermare che ho ritrovato me stesso grazie alla mia famiglia e a Dio, che non mi ha mai lasciato da solo e ha protetto i miei cari in ogni momento di difficoltà. Lui mi ha fatto fare un percorso in istituto che mi ha portato a crescere, capire, maturare. Probabilmente non avrei mai capito tante cose se non avessi messo piede in carcere. Qualcuno mi darà del pazzo, per me invece rappresenta, verità pura ed onestà.
Un giorno qualsiasi di un mese qualsiasi, venne a trovarci nei locali del Polo Universitario la Dottoressa responsabile dell’area trattamentale, accompagnata da tre persone che prima di allora non avevo mai visto. Ci presentarono un progetto dal nome Sicomoro sulla Giustizia Riparativa che prevedeva una serie di incontri tra vittime di reato e responsabili di atti criminali, che avesse il fine di avvicinare le parti coinvolte. Con la speranza di arrivare al termine del percorso alla concessione e ottenimento del perdono.
Saltai il primo incontro che corrispondeva al primo permesso premio che mi era stato concesso. Ma non il secondo, in cui mi presentai già fortemente emozionato per quanto i miei 5 compagni, che vi avevano già partecipato, mi avevano trasmesso.
Nel marzo 2019, in un’aula scolastica dell’Istituto, al piano terra del blocco E, iniziava per me un progetto che mi portava a conoscere persone vittime di reati di vario genere. Si poteva leggere sui loro volti i segni e le scritte del dolore, della rabbia, per quanto subito e anche per la perdita dei propri cari. Il modo e l’atteggiamento che il dolore loro provocava, rannicchiava noi detenuti. Non è semplice spiegare cosa avviene e cosa riesci a provare in una situazione così, ma è facile ammettere con tutte le forze, che da quel momento in avanti, ad ogni incontro che si succedeva, veniva ad instaurarsi un rapporto quasi alla pari, che faceva persino dimenticare, chi fossero le vittime e chi i detenuti.
Terminato il primo incontro, andai nella mia stanza ed iniziai a piangere come un bambino. FINALMENTE! Portavo a completamento della ricerca di me stesso, un sentimento che negli anni precedenti la carcerazione, avevo smarrito: il dolore.
Dovetti attendere un’altra lunga settimana, fatta di lunghi sette giorni prima che si ripetesse l’incontro e invece avrei desiderato e voluto che ogni giorno potessi rifare l’esperienza e la gioia di rincontrare quelle persone prive di ogni maschera e che meritavano solo ed esclusivamente rispetto.
Gli incontri si ripetevano puntualmente e ciò che costantemente cresceva, era il senso di fratellanza, di amicizia, che abbatteva quei muri e che personalmente mi consegnavano serenità, fiducia, speranza, ottimismo, valori. Quando il progetto giunse al termine degli incontri previsti, ci si sentì un poco sbandati, pensavo che da quel momento tutto sarebbe tornato come prima. Personalmente invece il risultato fu l’esatto opposto, perché avevo trovato una parte di me stesso, latente per anni, che completava un puzzle rigenerante.
Gioivo e soffrivo, ridevo e piangevo, perché tra gli anni di carcerazione fatti e l’esperienza forte ed incisiva del Sicomoro, riuscivo a svegliarmi il mattino e andavo a letto la sera senza il peso del finto, del falso, del codardo. Il “miracolo” è avvenuto e mi ha dato ciò che non avevo capito di aver perso nella ragione, nella razionalità, nell’equilibrio.
Mi ha indirizzato al Progetto Sicomoro. Mi ha dato l’onore di conoscere quelle persone, che ad ogni incontro mi donavano, nonostante tutto, un saluto vero, un abbraccio forte, un sorriso rincuorante. Hanno saputo riconsegnarmi quelle medicine giuste di cui il mio vivere quotidiano, aveva bisogno.
Ringrazio tutti gli amici del Sicomoro, per avermi preso per mano. A tutti loro nessuno escluso, mi permetto di dire grazie, con onesto sentimento di fratellanza e perdono.
Michele Romano