Formazione de “Il viaggio del prigioniero” a Nuoro

Formazione de “Il viaggio del prigioniero” a Nuoro

Il 12 febbraio, a Nuoro, 26 volontari provenienti da tutta la Sardegna, si sono incontrati per imparare un nuovo modo di servire, diventando facilitatori de “il Viaggio del Prigioniero. Da oggi , il progetto, già avviato nella casa circondariale di Isili, potrà essere portato anche nelle carceri di tutta l’Isola.

Un momento intenso di preghiera ha preceduto le attività condotte dai due formatori Francesco e Maria Pia. Le lodi hanno invaso non soltanto la stanza ma anche i cuori dei presenti che sono stati un sol corpo e un’anima sola. Tutti hanno vissuto molto di più di una semplice emozione o esperienza ma un vero invito a restare sempre uniti nello Spirito per fare entrare Gesù nelle carceri di tutta la Sardegna.

Le attività di formazione, condotte in maniera semplice ed efficace, sono state seguite con estremo interesse e la partecipazione attiva è stata elevata. Una simulazione ha permesso di sciogliere il timore e chiarire numerosi dubbi.

Al termine delle attività, la gioia traboccava in tutti ma di certo era solo l’inizio di un’emozione che “Il Viaggio del prigioniero” rende ancora più grande. Infatti, i due facilitatori del carcere di Isili, Annamaria e Andrea, hanno raccontato che si tratta di un Viaggio meraviglioso, e il loro entusiasmo, il loro sguardo e il loro sorriso ne sono stati testimoni!

Simona Atzori

Dal gioco d’azzardo al progetto Sicomoro

Dal gioco d’azzardo al progetto Sicomoro

Sono Michele, ho 54 anni e sono nato a Palermo, città che amo e che mio malgrado decisi di abbandonare nel luglio del 2009 per trasferirmi a Torino, alla ricerca di quella “nuova vita”, che mi permettesse di lasciare alle spalle tutti quegli stupidi ma gravi errori commessi sino ad allora.

Nel settembre del 2016 giungeva inesorabilmente il conto che la giustizia mi chiedeva di pagare per i reati di truffa commessi negli anni 2007 e 2008, periodo che mi vedeva impiegato al Comune di Palermo con la qualifica di vigile urbano prima e geometra dopo. Venivo recluso alle Vallette di Torino per scontare una condanna a 7 anni.

Oramai da tempo quel maledettissimo vizio che prende il nome di “gioco d’azzardo”, aveva portato nella mia vita rovina e distruzione. Però non mi aveva abbattuto, mi rimaneva la cosa più preziosa che avevo: la mia famiglia. Mia moglie Roberta, i miei figli Francesco Emmanuele e Serena, le prime vittime dei miei errori, che stanno ancora pagando, nei sentimenti, nelle ristrettezze, nei sacrifici. Non mi hanno mai abbandonato, mai voltato le spalle nonostante le delusioni, le amarezze, le mortificazioni. Hanno anteposto l’amore e la ragione ai sentimenti di rabbia e di vendetta.

Perché se è vero che da quel settembre 2016, ho conosciuto quanto buio contiene il carcere ed il vivere in esso, oggi ho la gioia di dire che mi ha fatto ritrovare quella luce che da tempo non vedevo così luminosa e raggiante.

Ho iniziato a studiare seriamente, iscrivendomi al Polo Universitario alla facoltà di Scienze Politiche che si trova all’interno dell’istituto, e con altrettanto impegno ho iniziato a studiare me stesso che ritengo aver perso chissà quando e chissà dove, anni e anni addietro.

Sin dal primo momento, mi sono aggrappato alla fede, perché la ritenevo fondamentale per andare avanti, per guarire in primis e per trovare la forza giusta alla mia situazione piena di spine e di problematiche. Oggi sono in grado di affermare che ho ritrovato me stesso grazie alla mia famiglia e a Dio, che non mi ha mai lasciato da solo e ha protetto i miei cari in ogni momento di difficoltà. Lui mi ha fatto fare un percorso in istituto che mi ha portato a crescere, capire, maturare. Probabilmente non avrei mai capito tante cose se non avessi messo piede in carcere. Qualcuno mi darà del pazzo, per me invece rappresenta, verità pura ed onestà.

Un giorno qualsiasi di un mese qualsiasi, venne a trovarci nei locali del Polo Universitario la Dottoressa responsabile dell’area trattamentale, accompagnata da tre persone che prima di allora non avevo mai visto. Ci presentarono un progetto dal nome Sicomoro sulla Giustizia Riparativa che prevedeva una serie di incontri tra vittime di reato e responsabili di atti criminali, che avesse il fine di avvicinare le parti coinvolte. Con la speranza di arrivare al termine del percorso alla concessione e ottenimento del perdono.

Saltai il primo incontro che corrispondeva al primo permesso premio che mi era stato concesso. Ma non il secondo, in cui mi presentai già fortemente emozionato per quanto i miei 5 compagni, che vi avevano già partecipato, mi avevano trasmesso.

Nel marzo 2019, in un’aula scolastica dell’Istituto, al piano terra del blocco E, iniziava per me un progetto che mi portava a conoscere persone vittime di reati di vario genere. Si poteva leggere sui loro volti i segni e le scritte del dolore, della rabbia, per quanto subito e anche per la perdita dei propri cari. Il modo e l’atteggiamento che il dolore loro provocava, rannicchiava noi detenuti. Non è semplice spiegare cosa avviene e cosa riesci a provare in una situazione così, ma è facile ammettere con tutte le forze, che da quel momento in avanti, ad ogni incontro che si succedeva, veniva ad instaurarsi un rapporto quasi alla pari, che faceva persino dimenticare, chi fossero le vittime e chi i detenuti.

Terminato il primo incontro, andai nella mia stanza ed iniziai a piangere come un bambino. FINALMENTE! Portavo a completamento della ricerca di me stesso, un sentimento che negli anni precedenti la carcerazione, avevo smarrito: il dolore.

Dovetti attendere un’altra lunga settimana, fatta di lunghi sette giorni prima che si ripetesse l’incontro e invece avrei desiderato e voluto che ogni giorno potessi rifare l’esperienza e la gioia di rincontrare quelle persone prive di ogni maschera e che meritavano solo ed esclusivamente rispetto.

Gli incontri si ripetevano puntualmente e ciò che costantemente cresceva, era il senso di fratellanza, di amicizia, che abbatteva quei muri e che personalmente mi consegnavano serenità, fiducia, speranza, ottimismo, valori. Quando il progetto giunse al termine degli incontri previsti, ci si sentì un poco sbandati, pensavo che da quel momento tutto sarebbe tornato come prima. Personalmente invece il risultato fu l’esatto opposto, perché avevo trovato una parte di me stesso, latente per anni, che completava un puzzle rigenerante.

Gioivo e soffrivo, ridevo e piangevo, perché tra gli anni di carcerazione fatti e l’esperienza forte ed incisiva del Sicomoro, riuscivo a svegliarmi il mattino e andavo a letto la sera senza il peso del finto, del falso, del codardo. Il “miracolo” è avvenuto e mi ha dato ciò che non avevo capito di aver perso nella ragione, nella razionalità, nell’equilibrio.

Mi ha indirizzato al Progetto Sicomoro. Mi ha dato l’onore di conoscere quelle persone, che ad ogni incontro mi donavano, nonostante tutto, un saluto vero, un abbraccio forte, un sorriso rincuorante. Hanno saputo riconsegnarmi quelle medicine giuste di cui il mio vivere quotidiano, aveva bisogno.

Ringrazio tutti gli amici del Sicomoro, per avermi preso per mano. A tutti loro nessuno escluso, mi permetto di dire grazie, con onesto sentimento di fratellanza e perdono.

Michele Romano

Il progetto Sicomoro finisce qui!

Il progetto Sicomoro finisce qui!

Siamo entrati da 15 minuti e siamo ancora da soli in quella stanza.

Ecco che la porta si apre ed entrano Tina e Gianna. Un saluto evasivo come evasiva è la spiegazione sull’assenza delle altre. Con un rapido cenno d’assenso di Arcangelo e Caterina decidiamo di cominciare. Non faccio in tempo a porgere i saluti che Tina chiede di parlare: “Le altre non verranno ed anche noi due usciremo subito. Siamo venute solo per dirvi che l’altra volta ci siamo sentite attaccate e giudicate. Nella nostra vita siamo state aggredite molte volte e per le nostre colpe siamo già state giudicate e condannate. Adesso basta! Se dobbiamo venire qui per subire ancora, meglio stare nelle nostre celle. NO, grazie. Adesso ce ne andiamo anche noi”. Parte decisa verso l’uscita. Per fortuna quel giorno mi ero piazzato proprio accanto alla porta e quasi fisicamente le impedisco di attraversarla chiedendole contemporaneamente di aspettare almeno il tempo di alcune spiegazioni. Visibilmente a malavoglia si piazza in piedi al centro della stanza e i suoi occhi dicono chiaramente: sbrigati così possiamo andarcene. Ripercorro velocemente i principi base del sicomoro, soffermandomi in particolare sul rispetto e sulla mancanza di pregiudizi. Parole al vento proprio perché erano solo parole. Si insinua Caterina testimoniando tutto quello che il sicomoro le aveva e le stava donando e come avesse cambiato la sua vita.

La realtà sostituisce la teoria e infatti Tina torna a sedersi. Intervengono anche Anna, Aurora e Michela e l’atmosfera ritorna serena. E’ il turno di Mimma. Probabilmente erano stati i suoi interventi nel primo incontro a scatenare questo pandemonio. Avevamo tutti intuito che il racconto di Giorgia era perlomeno lacunoso e parziale, ma Mimma era andata giù pesante cercando di abbattere a spallate il muro che Giorgia aveva eretto. Nel sicomoro di un anno fa era avvenuta la stessa contesa, ma dall’altra parte c’era un uomo e il tutto si era trasformato in una disputa durata 3-4 incontri finchè i due si erano definitivamente spiegati e capiti. Adesso Mimma chiarisce i suoi dubbi e le sue motivazioni e Tina accetta.

L’incontro termina regolarmente e Tina promette che tornerà e farà ritornare anche tutte le altre. Infatti sarà così.
Non a caso ho detto che l’altra volta c’era un uomo. Vi sto infatti parlando del progetto svoltosi tra novembre e dicembre scorsi nel reparto femminile di Torino. Il primo in Italia. Noi eravamo partiti usando lo schema classico, ma già le testimonianze del primo giorno, per non parlare dello scontro appena narrato, ci hanno letteralmente catapultato in una realtà completamente diversa. Qui ci sono donne: mogli, madri, figlie, compagne. E tutto cambia.

Cambiano le motivazioni: non più concetti come l’onore, il successo, la posizione sociale, il tenore di vita, il predominio, ma la quotidianità, i figli da mantenere ed educare, il decoro e la dignità, il rispetto e la considerazione.
Cambiano gli obiettivi: non più la conquista del potere, il riconoscimento della superiorità, la vita spensierata, ma la sicurezza personale, la tranquillità familiare, il mantenimento e l’educazione dei figli, il riconoscimento della persona e delle sue aspettative.
Cambiano i metodi: non più l’uso della violenza e degli strumenti per affermarla (una volta uno ci disse “le mani o il ferro”), la conquista del territorio, lo sfruttamento ad uso personale delle persone, delle leggi, ma l’uso delle proprie capacità per sopravvivere e far sopravvivere le persone delle quali si sentono responsabili.

Il quadro che si delineava attorno ad ogni testimonianza era sempre lo stesso: dietro a tutti i reati c’era sempre la figura di un uomo: un marito che picchiava, un padre che le costringeva a rubare, un familiare che abusava, un compagno che costringeva a spacciare. E quando quest’uomo non c’era era proprio la sua mancanza a spingerle: il marito che spariva lasciando moglie e figli, il padre che le obbligava al matrimonio per denaro, il compagno che le abbandonava sul marciapiede.

Sì, non tutte, c’era anche quella che lo faceva per divertimento, per la compagnia, per ambizione.
Tutto questo ha portato ad un ribaltamento dei rapporti all’interno della stanza del sicomoro. Detenute e vittime, quasi tutte donne, sono entrate subito in sintonia. Gli argomenti, le motivazioni, gli ambienti, le cause, i desideri, erano gli stessi. Naturalmente erano diverse le soluzioni alle quali le une e le altre erano ricorse, ma proprio queste differenze erano fonte di discussione e di confronto. Quando una raccontava la causa del suo errore c’era sempre un’altra che spiegava come lei era riuscita a superare quella difficoltà rimanendo nella legalità. Allora si interrogavano, si spiegavano, si accettavano, si capivano, si volevano bene. Sì, ad un certo punto il problema di una diventava il problema di tutte, il successo di una si trasformava nella futura vittoria di tutte, la possibilità di una si convertiva in speranza per tutte
Io ed Arcangelo eravamo felici spettatori di tutto questo anche perché, bontà loro, ci era permesso di intrufolarci con qualche consiglio e con la possibilità di indirizzare correttamente il progetto.
Ogni intervento, ogni replica, ogni abbraccio, ogni carezza, ogni lacrima, contribuivano ad avvicinare, a collegare, a chiudere quella frattura che il reato apre tra le due parti: colpevole e vittima. Questo è il fine principale del progetto sicomoro e questo avveniva ad ogni incontro.

Pierpaolo Trevisan

Che grande gioia!

Che grande gioia!

C’è una grande gioia che un papà e una mamma vivono quando vedono nascere un figlio: questa è la gioia di chi vive esperienze di servizio, missione ed evangelizzazione!

Ogni volta che entriamo in carcere a trovare detenuti,  incrociando i loro occhi scrutiamo con tenerezza, affetto e delicatezza la loro situazione, consapevoli che la limitazione della libertà è una grande e prolungata sofferenza.

Vedere poi questi stessi occhi inondarsi di lacrime o accendersi di luce nuova grazie a momenti di condivisione, fraternità, convivialità è causa di gioia per tutti coloro che entrano nel carcere per annunciare il vangelo, l’amore e il perdono di Dio, mettendosi all’ascolto di coloro che vivono in regime di detenzione.

Per vivere questa gioia, è possibile prepararsi anche con la partecipazione ai corsi di formazione organizzati da Prison Fellowship Italia per tutti i volontari che desiderano mettersi al servizio dei fratelli di Gesù che vivono in carcere. Sì, partecipare al corso formativo per il nuovo progetto “Viaggio del prigioniero-VDP” è stata esperienza simile ai corsi preparto.

Con sapienza e simpatia, nell’oratorio della parrocchia san Maiolo a Novara, Francesco Di Turo ha illustrato a 35 fratelli e sorelle, provenienti da varie parti del Piemonte e Valle d’Aosta, la metodologia, l’organizzazione, lo sviluppo e la conduzione del corso VDP. Secondo tale progetto, in 8 incontri si aiutano i detenuti a trovare nuova luce e speranza attraverso un percorso interiore scandito dalla conoscenza della persona di Gesù tramite il vangelo di Marco. Scoprendo l’identità di Gesù, la sua missione e le esigenze ed implicazioni della sua chiamata per ogni essere umano, i volontari ed i detenuti vivono insieme un viaggio che li conduce anche ad una più profonda scoperta di se stessi, della propria più autentica umanità ed identità, commisurata all’umanità di Gesù e risanata dalla Sua divinità.

Al termine del corso, vissuto nella mattinata del 4 febbraio, i presenti hanno anche avuto la consolazione di ascoltare Antonella Borgarello, che un paio di giorni prima aveva concluso la conduzione di questo corso nel carcere torinese delle Vallette. La sua testimonianza è stata appassionata ed entusiasmante ed ha lasciato in molti dei presenti il desiderio di vivere questo servizio a beneficio dei detenuti.

Ringraziamo Dio per la presenza e partecipazione attiva di tante persone, tra cui anche molti giovanissimi. Ringraziamo Francesco che ci ha donato la conoscenza di questo progetto, trasmettendoci anche la sua passione per questa tipologia di servizio all’uomo. Ringraziamo anche don Silvio Barbaglia,  parroco della parrocchia novarese che ci ha accolto, favorendo ed incoraggiando anche la partecipazione di un gruppetto di parrocchiani.

Dio benedica tutti noi, confermandoci nel desiderio di servirlo  in tutti coloro che soffrono.

Giuseppe Casadei

Buon Natale di Gesù

Buon Natale di Gesù

Mentre ci avviciniamo al Natale, desidero solo prendermi un momento per ringraziarvi per la vostra generosità quest’anno, che è stato difficile per molti. Anche le nostre attività ne hanno risentito.

L’economia globale ha sofferto a causa della svalutazione del denaro, della crisi energetica, dei disastri naturali, della carestia e dell’inflazione.
Ma Dio è stato fedele e ha portato a compimento la Sua buona opera!

Quest’anno avete condiviso il Vangelo con decine e decine di uomini e donne in carcere con il Progetto Sicomoro, dando loro accesso al programma Il viaggio del prigioniero e servendo pranzi gourmet.

Mentre celebriamo la nascita del nostro Salvatore, unisciti a noi nella preghiera per coloro che celebreranno il loro primo Natale con ritrovata fede in Gesù grazie al tuo sostegno.

Possa il tuo Natale essere pieno della pace di Dio.

Buon Natale di Gesù!

Un pranzo d’amore e tanto ALTrO!

Un pranzo d’amore e tanto ALTrO!

La Casa Circondariale di Palmi “F. Salsone” è stata teatro, nella data odierna, di una bellissima iniziativa, abbracciando il progetto di Prison Fellowship Italia “L’ALTrA cucina…per un pranzo d’amore”.

Il progetto ha coinvolto 21 strutture penitenziarie in tutta Italia, all’interno delle quali gli ospiti hanno avuto la possibilità di vivere l’esperienza di un pranzo di Natale speciale, preparato da 25 chef stellati, con la collaborazione di associazioni e di volontari.

La giornata di oggi è stata possibile grazie alla sensibilità dimostrata da vari sponsor, dallo Chef stella Michelin Nino Rossi e dal pasticcere Rocco Scutellà. Hanno partecipato: il direttore sportivo della Reggina Calcio Massimo Taibi, la Dott.ssa Cinzia Barillà, Magistrato di Sorveglianza di Reggio Calabria, la Dott.ssa Daniela Tortorella, Presidente del Tribunale di Sorveglianza, l’Avvovato Luca Muglia, Garante regionale dei detenuti, l’Associazione ‘Mbuttaturi della Varia di Palmi. Molto significativo e sentito l’intervento del direttore Mario Antonio Galati.

Il tutto è stato allietato dalle note musicali del duo Un quintale di Swing, costituito da Salvatore Saffioti e Rocco Cannizzaro, con la partecipazione fuori programma di un ospite dell’Istituto che ha regalato momenti di divertimento, ma anche di riflessione su tematiche importanti, quali le difficili condizioni di vita dei detenuti, le innumerevoli privazioni.

Tali innumerevoli privazioni, durante le festività, risultano certamente amplificate per chi vive senza affetti, che restano fuori da queste mura. Se è vero che “anche se ha commesso un grave errore, un uomo non è necessariamente perduto per sempre”, iniziative come questa possono offrire una nuova prospettiva, una speranza… Perché ciascuno di noi è molto di più di ciò che è stato e di ciò che ha fatto ma, soprattutto, è anche di meno rispetto a ciò che potrà essere e che potrà fare.

Che sia, per tutti, un Natale libero nel cuore.

 

Palmi, 20-12-2022

 

Flavia Tedesco

Lettera di Andrea al termine del Progetto Sicomoro

Lettera di Andrea al termine del Progetto Sicomoro

Sono Andrea, ho 24 anni e ho partecipato al progetto Sicomoro nel periodo giugno-luglio 2022.

Per chiedere perdono a coloro ai quali ho recato disagio economico e psicologico, penso che il primo passo è ristabilire un equilibrio di benessere psico-fisico con me stesso e dal 15.05.2020 sto cercando di dimostrarlo con i fatti e non con le solite parole.

Purtroppo attualmente ho una sfiducia nei miei confronti che solo fuori da questo carcere potrò cambiare adempiendo ai miei doveri.

Il progetto Sicomoro mi ha messo davanti delle vittime che raccontandosi, a nudo e senza filtri, mi hanno fatto sentire emotivamente inferiore, forse non riuscirò mai a raccontarmi per davvero quello che sono stato.

Mi rimarrà impresso un abbraccio dopo che chiesi scusa ad una vittima di furto; mi sono sentito un verme per tutte le volte che ho rubato.

Tra i trambusti della mia vita ho fatto tanto soffrire i miei genitori e soprattutto mio fratello, però mi sono guardato dentro per la prima volta e adesso mi impegno nel lavoro e studio anche per recuperare il tempo perduto.

Se sono qui non posso piangermi addosso ma la colpa è solo mia. Prima di tutto ho causato tanti problemi a casa, nel matrimonio dei miei genitori tanto da indurre mio fratello ad andarsene via di casa, perché lui in quel casino non ci voleva stare.

Vorrei avere davanti a me tutte le vittime che hanno subito i miei reati, guardarli negli occhi e spiegargli che purtroppo sotto l’effetto di stupefacenti un tossicodipendente non coglie in maniera oggettiva le conseguenze dei propri atti, le persone diventano uno strumento per arrivare alla sostanza. Ti trovi da solo e l’unica forma di gratificazione è la droga.

Qui alle Vallette mi sono diplomato e ho un buon lavoro che mi permette di mettere da parte qualcosa per quando uscirò; solo allora potrò avere la prova che il percorso sin ora fatto è stato costruttivo.

Chiedo perdono a tutte le vittime ma anche alle persone che hanno creduto in me ricevendo sempre delusioni. Infine chiedo scusa a me stesso, avrei potuto fermarmi al momento giusto e tornare nella retta via ma non ho avuto il coraggio né la forza. Ora guardo al futuro fiducioso, però posso dire con certezza che quando sembrava tutto finito l’Unico che mi è stato accanto era Dio.

Genitori Dentro e Fuori: progetto di sostegno alla genitorialità

Genitori Dentro e Fuori: progetto di sostegno alla genitorialità

L’esperienza genitoriale, già così difficile nel contesto quotidiano, viene notevolmente complicata quando la relazione genitori-figli viene attraversata dall’evento detentivo. Ad essere colpito non è soltanto il soggetto che ha commesso il reato, ma tutto il contesto familiare, soprattutto i figli. La carcerazione di un genitore è un’esperienza dolorosa e traumatica per molti bambini e adolescenti che va ad impattare sulla loro vita, sul benessere psichico, fisico e sociale.  Nella consapevolezza di dover e poter fornire un supporto psico-educativo che miri all’ascolto, ad offrire opportunità di incontro, crescita e cambiamento nella relazione genitori-figli, laddove questa soffra la distanza e le oggettive limitazioni delle mura carcerarie, nasce presso la Casa Circondariale di Palmi il PROGETTO DI SOSTEGNO ALLA GENITORIALITA’ “Genitori dentro e fuori” che a breve vedrà la conclusione della sua III edizione.

La metodologia scelta è l’intervento di gruppo e dalla I edizione alla III il numero dei partecipanti è stato in crescita, un fattore che ha confermato ulteriormente la validità del progetto.  Il progetto per ogni edizione si è articolato in circa 8/9 incontri con cadenza settimanale di 90 minuti.

Dal primo incontro i partecipanti, compresi i conduttori, si sono disposti in cerchio e dopo un giro di presentazione, tutti sono stati invitati a immaginare di intraprendere un “viaggio” che contenesse in sé il desiderio di cambiamento e soprattutto si articolasse in un percorso che avesse una funzione formativa.  Dopo aver scelto il mezzo con cui intraprendere questo viaggio, questo è stato disegnato su un grande foglio bianco e ognuno liberamente si è collocato al suo interno, aggiungendo qualsiasi elemento ritenesse fondamentale. In alcuni casi è stata scelta la nave, in altri il viaggio è stato una scoperta di posti da visitare a piedi o con un pulmino. Un aspetto cruciale sono state le aspettative di ogni soggetto e il bagaglio che desiderasse portare con sé, per alcuni fatto di esperienze, convinzioni, per altri un bagaglio vuoto da riempire man mano.

Nei successivi incontri è stata data l’opportunità di accogliere ed elaborare la funzione paterna, raccontando come hanno vissuto l’essere diventato padre e come lo vivono nell’oggi. Di seguito alcune testimonianze: <<Essere padri è un dono, ma non è facile, non sai se ciò che fai è giusto. Nel poco tempo a disposizione mi viene più facile dare calore che rimproveri>>. <<Adesso ho capito molte cose. Le paure che aveva mio padre nei miei confronti, adesso le ho anche io per i miei figli, adesso ho capito>>. 

Sono state proiettate delle scene tratte da film per far riflettere non solo sulla difficoltà di esercitare il ruolo genitoriale, ma sulle aspettative e sulle esigenze dei figli. Si è lavorato su come accrescere e rafforzare le competenze educative e sono stati illustrati i 4 stili educativi genitoriali affinché si potesse avere una guida operativa per riflettere, modificare e affinare la propria linea educativa.  Sono state condivise delle lettere, si è lavorato con l’uso di immagini in grado di evocare ricordi, suscitare emozioni e aiutare a comprendere che ogni emozione merita di essere espressa.  In alcuni casi è stato necessario lavorare sui Giusti Si e i Sani No da dire ai propri figli; sull’importanza di perdonare se stessi per gli errori commessi e per la sofferenza causata ai propri cari, aprendosi a nuove opportunità e a ricominciare. Si è fatto uso di interviste doppie, scenette per verificare gli apprendimenti e dare la possibilità ai padri di immedesimarsi nei ruoli dei figli.

Ogni gruppo ha manifestato i propri punti di forza e quelli di maggiore debolezza su cui si è dovuto soprattutto lavorare: alcuni si sono mostrati più aperti di altri, altri sono sbocciati durante i vari incontri donando al gruppo le proprie ferite, insicurezze, lacrime e desideri. Altri ancora hanno colto l’occasione per rafforzare quel cambiamento personale e genitoriale che aveva avuto inizio già da tempo e che aveva bisogno solo di essere rinforzato. Molti hanno imparato a guardare con occhi nuovi ciò che sembrava scontato.

Nuovi sentimenti, nuove consapevolezze, maggiori attenzioni ai figli e soprattutto ascolto attento e non giudicante. Nei vari incontri non sono mancati riferimenti a parabole del vangelo che potevano essere contestualizzate, preghiere conclusive, canti. Gli stessi conduttori hanno scelto di migliorare il progetto chiedendo ai partecipanti dell’ultima edizione di suggerire quegli aspetti che avrebbero voluto trattare o approfondire e in uno scambio di ruoli, per alcuni minuti, i conduttori sono stati travolti dalle emozioni dell’immedesimazione e dalla crescita che il gruppo ha manifestato.

Per ogni edizione del progetto si è sempre cercato di concludere con un ultimo incontro in cui partecipassero anche le famiglie dei detenuti. Il covid, purtroppo come in ogni ambito, è stato un grande ostacolo che per molti ha determinato l’impossibilità di concretizzare questo sogno. Tuttavia, al termine di questa terza edizione, alcuni di loro avranno la possibilità di trascorrere del tempo da dedicare ai propri cari, giocando, parlando e soprattutto donando tutto di se stessi così come desiderano.

Genitori dentro e fuori è un progetto che aiuta i padri ad esercitare il proprio ruolo nella difficile situazione in cui si trovano e soprattutto li aiuta a guardare al domani con speranza, immaginando un futuro diverso per sé e per la propria famiglia. E’ un progetto che ha scosso tutta la realtà carceraria della Casa Circondariale di Palmi perché non si parla solo più di pene, avvocati, cause, ma nelle ore d’aria i detenuti continuano a raccontarsi e condividere fra loro le difficoltà di padri, incoraggiandosi e sostenendosi a vicenda, consapevoli del peso comune che portano sulle spalle.

Sabrina Orlando

E poi…l’imprevisto!

E poi…l’imprevisto!

Si può riassumere tutto un progetto sicomoro in un abbraccio: sicuramente no, ma comunque intanto cominciamo da lì.
Siamo all’ultimo incontro del progetto svolto a Torino, Le Vallette, tra giugno e settembre. La direzione ha concesso la partecipazione di alcuni familiari dei detenuti. Quindi un giorno speciale per molti di loro.

Gianni è un giovane che si è rovinato per la droga. Per procurarsela furti e rapine con conseguente arresto e alcuni anni di condanna. Durante il progetto si dichiara sconfortato perchè il suo comportamento aveva portato discordia in famiglia tanto che suo fratello se ne era andato, stanco delle liti dei genitori. Alla sessione finale di oggi erano presenti la mamma ed il fratello di Gianni. Lui ha l’infelice idea di presentarmeli. Prendo in disparte il fratello e gli chiedo di Gianni. Mi conferma che non ne vuol più sapere nulla perché troppe volte ha promesso cambiamenti per lasciare cadere tutto nel nulla. E infatti si vedeva da lontano il gelo fra di loro. Ma io so che Gianni è cambiato. Come tutti oggi legge la sua lettera, chiedendo scusa e perdono a tutti e specialmente al fratello. Inutile, uno girato a destra e l’altro a sinistra. Senza dirgli nulla, verso la fine dico che sarebbe bello sentire anche i familiari e naturalmente chiedo al fratello di Gianni di venire al microfono. Preso in contropiede, si sente obbligato ad alzarsi. Comincia a dire qualcosa sull’incontro e ne approfitto per fagli la domanda diretta: “e di Gianni che ci dici”! Malvolentieri conferma la sua delusione per le troppe promesse mancate, ma poi con un mezzo sorriso aggiunge: “sinceramente lo vedo un po’ cambiato. Forse vale la pena di dargli una nuova possibilità “. Gianni lo aspetta a braccia aperte e l’abbraccio dura a lungo come lungo è il tempo che passano dopo a parlare insieme. Speriamo bene e preghiamo per loro.

Troppo poco, allora continuo.

La direzione ha permesso la partecipazione dei detenuti partecipanti al progetto di 3 anni prima. Si presentano in 4. Gli altri nel frattempo sono ritornati liberi e sono in continuo contatto con noi, specialmente con Arcangelo. Fanno tutti la loro testimonianza, confermando tutte le conquiste che avevano raggiunto durante il progetto e anzi come quelle fossero la base dalla quale continuavano a crescere. Tra di loro c’è Mattia. Il suo progetto era stato molto duro perché duro era il suo reato. Se vi ricordate vi avevo detto come la madre, nel parlatorio, avesse visto la luce che si era riaccesa nei suoi occhi, la luce che aveva da ragazzo. Ho rivisto quegli occhi brillare e sono rimasto a bocca aperta sentendolo ricordare il suo cammino durante il progetto, sentendolo ricordare tutte le vittime e quanto gli avevano dato, sentendolo ricordare tutte le parole, tutte le impressioni che ci siamo scambiati. Adesso lui è un punto di riferimento per tutti i detenuti perché cura i loro rapporti on-line e lo fa con amore e per amore. Alla fine del progetto aveva promesso che la sua vita sarebbe stata orientata a fare il bene e lo sta confermando.

Troppo poco, allora continuo.

All’inizio di un incontro eravamo un po’ arrabbiati. Io, Arcangelo, Caterina, Anna, Aurora, Michela, Marco e Chiara eravamo da soli nell’aula. La guardia ci dice che quel giorno erano stati sbloccati i colloqui e che quindi tutti i detenuti erano in attesa del familiare o del collegamento on-line. Quando qualcuno terminava sarebbe venuto. Dal nulla spunta Francesco e decidiamo di cominciare con lui. Il motivo c’era. Francesco si era macchiato di omicidio. E’ un gran chiacchierone, ma ogni volta che arrivava sul fatto si bloccava e cambiava discorso. Anche stavolta parte dall’inizio. Dopo mezz’ora arriva al punto e…. prosegue. Stavolta non si blocca, ma si sblocca e riesce ad affrontare la realtà di quanto avvenuto. La paura di raccontarsi davanti ad altri penso sia insita in ciascuno di noi, figurarsi tra di loro. Dopo un po’, tra un andirivieni pazzesco, rientrano anche molti altri e possiamo completare regolarmente l’incontro. Per la precisione Francesco si è sbloccato con le parole, ma rimane ancora molta strada perché lui riesca ad accettare con la mente quanto avvenuto. Intanto è partito.

Troppo poco, allora continuo.

Per Angelo è la classica storia: giovane, droga, rapine, carcere. All’uscita con molta buona volontà prende la strada giusta: un buon lavoro e una ragazza con la quale metter su famiglia. Ma! Inevitabilmente sorgono i ma! Lui è un ex detenuto. Non è marchiato in fronte, ma è come se lo fosse. Per molti, troppi, vale il teorema: non può cambiare, prima o poi ci ricasca. Questo vale soprattutto per la famiglia di lei, che conseguentemente mette continui ostacoli al loro rapporto. D’altra parte lui, per seguire lei, entra a far parte dei testimoni di geova e allora è la sua famiglia che si ribella e non lo vuole più. Proprio quando il matrimonio sembrava vicino, i due muri eretti dalle famiglie riescono ad avere la meglio e va tutto a catafascio e conseguentemente va a catafascio anche la vita di Angelo: si ributta nella droga e pesantemente.

L’inevitabile conclusione: di nuovo in carcere.

Dopo il primo incontro ci dice che non tornerà più perché ci sono troppi riferimenti biblici e lui di religioni non ne vuol più sapere.
Ma Dio, quel Dio che lui rifiuta, vede e provvede. Le confidenze, durante la pausa sigaretta, e la testimonianza di una vittima permettono di individuare la cruna d’ago per entrare nel suo cuore e allora si apre un’autostrada.
Butta fuori tutti i suoi errori, tutte le sue sconfitte, tutti i suoi rancori verso un mondo che continua a giudicarlo. Guarda caso proprio dalle sue parole capisce che può ricominciare, proprio dalle cure e attenzioni delle vittime capisce che non tutti lo giudicano e condannano per partito preso, proprio dall’ambiente del sicomoro capisce che anche per lui può esserci una famiglia.
Ed il primo passo lo farà con Caterina, che lo accoglierà nella sua comunità.

Troppo poco, allora continuo.

Il papà di Marco portava spesso con sé il ragazzo nei suoi viaggi come autista e Marco si innamora di quel lavoro al punto di abbandonare le superiori per affiancare il padre nell’attività di conducente. Tutto bene con lavoro, moglie e figlio. Ma! Ancora una volta sorgono i ma!

Il padre è colpito da un infarto invalidante ed un grosso cliente non paga il suo debito. La ditta crolla, ma lui, con l’aiuto dei fratelli la riapre. Guarda caso poco dopo il più grosso cliente fallisce e quindi falliscono anche loro. La sua passione è così grande che prova a ripartire con l’aiuto di un fratello. Purtroppo i fornitori e gli autisti vogliono essere pagati in anticipo, mentre i clienti pagano a 120 giorni. I soldi mancano tanto che non riesce a pagare le bollette di casa con la moglie ancora incinta.

Disperato commette l’errore fatale: accetta di trasportare droga.

Con i soldi paga le bollette e raddrizza la ditta, ma i nodi vengono al pettine e lui viene arrestato. Il padre malato muore, nasce il secondo figlio, la sua famiglia è senza un sostegno e lui è in carcere, abbastanza per abbandonarsi alla disperazione. Da gesti estremi lo salva il cappellano. Il sicomoro è per lui un toccasana e, guarda caso, proprio alla fine, con l’art.21, gli viene concesso il lavoro esterno, guarda caso proprio come autista. E’ una persona rinata. Alla sessione finale non può essere presente proprio per il lavoro e allora ci manda una mail: “..mi farebbe piacere che la mia lettera sia letta per fare capire quello che mi ha dato il progetto ed essere in qualche modo lì con voi”.

Troppo poco, allora continuo. – No! Basta, non ne possiamo più. – Ok, allora mi fermo, anche perché ho una bellissima notizia da dare. Naturalmente non adesso, avete detto che siete stanchi. Sarà per la prossima volta.

Pierpaolo Trevisan

“…ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25, 36)

“…ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25, 36)

54.841. Questo è, ad oggi, il numero delle persone detenute negli istituti di pena in Italia.
12.000.000 è, invece, il numero di detenuti nel mondo. Di questi, 361.466 si sono lasciati raggiungere da un messaggio d’Amore, da una “buona notizia”: il Vangelo. Hanno, cioè, accettato di intraprendere un viaggio, Il viaggio del prigioniero”, durante il quale hanno imparato a conoscere la figura di Gesù, la Sua identità, la Sua missione e la Sua chiamata, attraverso le pagine del Vangelo di Marco e la guida di oltre 8000 volontari cristiani.

A rendere possibile questo viaggio è stata la Prison Fellowship International, che da più di 40 anni lavora per offrire alle carceri di tutto il mondo dei programmi in grado di recuperare i detenuti, aiutare le loro famiglie e favorire la loro reintegrazione all’interno della società.

Intraprendere un viaggio rappresenta sempre un rischio, un’incognita rispetto a ciò che si potrà trovare lungo la strada, ancor prima di giungere a destinazione.
Il nostro viaggio è iniziato con la formazione ricevuta, prima a Milano e poi a Salerno, durante il mese di agosto, insieme all’ideatore del progetto, Stephen James, ma si è concretizzato solo una volta arrivati a Nairobi, il 17 settembre, nel corso di una settimana formativa svolta insieme ad altre 14 Nazioni provenienti da ogni parte del mondo.
La paura con la quale lo abbiamo intrapreso è la stessa che ciascuno, prima o poi, si ritrova ad affrontare quando il Signore lo chiama a lasciare le sue cose, a non voltarsi, ad andare nei villaggi da Lui indicati, con la consapevolezza che potrebbe accadere di ritrovarsi in acque tempestose, in terre straniere, di essere rifiutati. Eppure, ogni incontro autentico fa sorgere, in chi lo ha vissuto, il desiderio che anche altri, soprattutto gli ultimi, gli irrecuperabili, possano sentirsi rivolgere quelle stesse parole di salvezza che, prima, qualcun altro gli aveva rivolto, cambiando la sua vita per sempre.

Sin da subito, una volta arrivati in Kenya, abbiamo fatto esperienza della bellezza di essere preceduti e accompagnati dallo Spirito Santo: una scolaresca di bambini del luogo, incontrata per caso, ci ha accolto con grandi sorrisi, carezze e abbracci, come fossimo stati la cosa più bella e preziosa che avessero mai visto. Sapevamo che in quell’incontro c’era la benedizione di Dio sul nostro “sì” e sulle fatiche che la missione avrebbe richiesto.

Caratteristica sorprendente di questo progetto, emersa durante il confronto con i vari ministeri nazionali della Prison Fellowship presenti a Nairobi, è la capacità di mettere insieme culture diversee sistemi penitenziari differenti, riuscendo comunque a raggiungere, a prescindere dal contesto e in un clima ecumenico, i risultati sperati: muovere quei passi necessari per spezzare, una volta per tutte, il cerchio del crimine. Lo scopo, infatti, è offrire ai detenuti la possibilità di un cambiamento di cuore e di mente che possa, poi, portarli ad invertire la rotta che la loro vita aveva intrapreso, per scelta o per necessità. E c’è solo una persona capace di spezzare le catene del peccato che attanagliano la vita e impediscono di riconoscersi figli amati: Gesù, che per primo ha fatto esperienza della prigionia e dei sentimenti di paura, solitudine, abbandono.

Proprio come gli apostoli, il Viaggio del Prigioniero prevede che si entri in carcere a due a due, insieme, per essere segno della comunione e dell’unità che vengono da Dio, testimoniando la bellezza e la forza che possono derivare solo dall’amore fraterno. Ma dietro quei due fratelli c’è un’intera comunità di volontari che, con diversi servizi, partecipa a diffondere la Parola. Dalle persone che si impegnano a coinvolgere nuovi volontari, a quelle che mettono in comune i loro guadagni; da quelle che, nel silenzio del loro cuore, pregano per ciascuno dei detenuti senza averli mai incontrati, a quelle che offrono le loro abilità professionali. Ognuno è indispensabile e ciascuno può fare la differenza, mettendosi al servizio con ciò che ha, anche fosse solo sé stesso. I giorni a Nairobi sono stati fondamentali proprio perché ci hanno dimostrato l’importanza di lavorare insieme, come membra di un unico corpo, come Chiesa.

Una delle esperienze più formative di quei giorni è stata la visita al carcere di Nairobi, durante la quale è stato possibile partecipare alla prima delle otto sessioni in cui si articola il progetto.
Prima di entrare ci chiedevamo cosa avremmo visto, ipotizzavamo il degrado a cui avremmo assistito, forse, l’atteggiamento scontroso di qualche detenuto o delle guardie stesse. Eppure, laprima cosa che ci ha colpito è stata la loro accoglienza: ci aspettavano, non con diffidenza o sospetto, ma come si aspetta la pioggia dopo un lungo periodo di siccità. Ognuno di noi volontari apparteneva a una realtà del mondo diversa, ma in quel momento eravamo parte di un’unica cosa, di quell’unico corpo. Diverse erano le lingue e le culture, ma lì dentro sentivamo soltanto ciò che ciaccumunava: la chiamata al servizio.

È bastato un canto iniziale, fatto di due frasi You are wonderful, you are worthy, perché ogni paura o preoccupazione si sciogliesse, perché la distanza fisica che c’era tra noi e i detenuti venisse meno.
Gesù, mediante lo Spirito Santo, era in mezzo a noi e ci stava aspettando. Era nei loro occhi, sui loro volti, nelle loro storie, nelle loro paure, nelle loro speranze.
La sessione si è svolta in assoluta tranquillità, con la piena partecipazione dei detenuti che, sebbene vivessero la fede (o la mancanza di questa) in modo diverso gli uni dagli altri, si sono lasciaticoinvolgere dalle guide in un percorso — o meglio, viaggio — che li porterà a scoprire (o a riscoprire) che Gesù è venuto proprio per loro, per farsi conoscere da loro, per donare loro la Parola che salva e che apre una nuova via quando sembra non esserci alternativa.

Lo sforzo a cui ci chiama questa missione è quello di scendere dal nostro personale sicomoro, che ha permesso alla nostra vita di vedere Gesù, per andare incontro all’uomo, come chiede continuamente Papa Francesco, e metterci al suo servizio, per accoglierlo e farcene carico, divenendo noi stessi sicomori sui quali arrampicarsi per vedere il Messia, proclamando il Vangelo della salvezza.


E tu, cosa aspetti? C’è un fratello o una sorella che ha bisogno di te per risollevare il capo dai suoi fallimenti e dalle sue delusioni e riconoscere Gesù in mezzo alla folla che abita la sua vita.